Narodni Dom, 100 anni dopo le fiamme
L’Italia e i conti con la violenza fascista

Il 13 luglio del 1920 due bambini guardano con animo diverso le fiamme che avvolgono il Narodni Dom, la Casa della cultura slovena di Trieste. Entrambi diventeranno simboli della storia e della cultura del Novecento europeo, delle sue tragedie e dei suoi successi. Entrambi testimoni della tante identità di una città di frontiera come Trieste. Uno di quei bambini è Gillo Dorfles. Ha 10 anni e da lontano, dal suo appartamento, guarda l’incendio appiccato dai fascisti divorare l’edificio che rappresenta il centro culturale ed economico della minoranza slovena in città. Quelle fiamme sono uno degli atti fondativi del fascismo e della sua feroce politica di distruzione dell’altro, di cancellazione delle minoranze, slave o ebraiche che fossero. Non c’è spazio per il diverso, nemmeno nella città modello di convivenza. “A Trieste allora il mondo ebraico conviveva con la comunità greca, con quella serbo ortodossa e slovena e proprio questa diversità di radici e di culture era all’origine delle fortune di quella città. A Trieste era del tutto normale parlare due o tre lingue”, racconterà a Pagine Ebraiche Dorfles, ricordando gli anni della giovinezza. Dell’incendio del Narodni Dom, ricorderà: “Abitavo nella strada di fronte, che allora si chiamava via Vienna. Ho visto l’incendio dalle finestre di casa mia che si trovava a quattro-cinque fabbricati di distanza. Mi ricordo di aver visto le fiamme e di aver udito un paio di spari”. Se Dorfles rimase a distanza chi corse invece subito a guardare la sua casa della cultura bruciare fu Boris Pahor, scrittore italiano in lingua slava, esempio vivente di cosa significhi dedicare la vita a combattere i totalitarismi e a lottare per la memoria e per la giustizia. Una lezione che a lungo ha cercato di trasmettere alle future generazioni: “I ragazzi devono imparare a pensare. E a non farsi infinocchiare dai potenti di turno”, dirà a Pagine Ebraiche in un’ampia intervista firmata da Daniela Gross in cui parla del suo passato di perseguitato e del ruolo di testimone. Il giorno del grande rogo fascista del Narodni Dom, è impresso nella memoria di Pahor: “Il pomeriggio del 13 luglio del 1920, non avevo ancora compiuto sette anni, cominciai a sentire un gran trambusto di movimenti e grida, senza capire che cosa stesse accadendo. Vivevamo allora in via Commerciale, in centro, quando una vicina venne ad annunciarci in ambasce che il Narodni Dom, a due passi da casa nostra, stava andando a fuoco. Non ci pensai due volte. Senza dire nulla a mia madre, presi per mano la mia sorellina Evelina, che allora aveva quattro anni, e ci precipitammo a vedere. Assistemmo a uno degli spettacoli più impressionanti della mia infanzia: da ogni finestra dell’edificio baluginavano lingue di fuoco. La gente che frequentava il Narodni Dom era riuscita a uscire, mentre gli ospiti dell’albergo erano rimasti intrappolati. Lanciavano grida di aiuto in italiano e in sloveno, ma gli squadristi, inebriati di pazzia, impedivano i soccorsi”. “Fu la ‘notte dei cristalli’ italiana e il mio primo violento e brutale contatto con il fascismo, che nel ventennio ebbe solo a confermare le premesse di quella che sarebbe stata la vita di noi sloveni sotto il regime”, il racconto di Pahor. Quell’evento fu per lui la prima scintilla dell’impegno di una vita: scrivere per testimoniare. “Credo che il mio talento letterario, pur inconsapevolmente, sia riconducibile a quell’evento. Con una finalità: scrivere per testimoniare. L’obiettivo prese corpo molti anni dopo, dopo i campi di concentramento, dopo il nazismo. Così divenni scrittore”, ha sottolineato di recente Pahor. Oggi, a 106 anni, è un monumento vivente alla Testimonianza, alla lotta contro il conformismo violento che uccide le diversità. Lui che dopo l’8 settembre – tornato a Trieste dopo essere andato sul fronte libico con l’esercito italiano – sceglie la clandestinità e si unisce alle truppe partigiane slovene attive nella Venezia Giulia. Nel 1944 viene catturato dai nazisti e internato a Natzweiler-Struthof, Dora e Bergen Belsen. Finita la guerra, torna a Trieste, dove aderisce a numerose imprese culturali dell’associazionismo cattolico e non-comunista sloveno. Il suo impegno politico non declina mai, nemmeno con l’avanzare dell’età. Dimenticato a lungo dall’Italia, mentre in Slovenia e in Europa è una celebrità, Pahor si è fatto portavoce infaticabile delle sofferenze della minoranza slovena sotto il fascismo. Ha chiesto per anni, nel silenzio di molti, riconoscimento e giustizia per quelle vittime. E il prossimo 13 luglio, a cent’anni dal rogo del Narodni Dom, sarà presente a un passo importante in questa direzione: la restituzione alla Comunità slovena d’Italia dell’edificio che oggi è sede della scuola per interpreti di Trieste.
Una cerimonia a cui parteciperanno i capi di Stato dei due paesi, Sergio Mattarella e Borut Pahor. “È un segno tangibile di riappacificazione”, l’approvazione di Pahor, a cui per l’occasione saranno conferite diverse onorificenze. “Un passo importante di un lungo percorso”, gli fa eco Mauro Covacich, scrittore triestino che nel suo La città interiore (La nave di Teseo) ricorda l’incendio della casa della cultura slovena, definendolo uno dei grandi rimossi della storia di Trieste. “Per chi non è di qua – spiega a Pagine Ebraiche lo scrittore – è difficile cogliere il significato di tutto questo: se uno va oggi in un’osmitza, in queste trattorie dell’altopiano carsico tutto popolato dalla minoranza slovena, vede ragazzi italiani che mangiano serenamente accanto a ragazzi sloveni. Questa cosa, vissuta con totale indifferenza da chi viene da fuori, per noi sa ancora tanto di miracoloso: fino agli anni ’80 ai cortei a favore del bilinguismo arrivavano i fascisti a sprangare le persone. Per cui questa convivenza ora così pacifica, io la vivo come un miracolo rispetto al passato”. Parlando della storia sofferta di quella zona, Covacich sottolinea che sì non bisogna dimenticare cosa accadde alle foibe ma dall’altro lato non si può non parlare anche “dell’opera di italianizzazione coatta degli sloveni nella Venezia-Giulia, che ha comportato la perdita dei diritti di migliaia di persone. Non potevano parlare la propria lingua in pubblico, non avevano le scuole, avevano una vita di clandestinità. Non dimentichiamo che dalle nostre parti si andava al campo di concentramento perché eri ebreo ma anche se ti sentivano parlare lo sloveno”. Abusi che spiegano le ulteriori violenze del Novecento tra le due parti. “È una vicenda intricata, di cui il rogo del Narodni dom sembra l’esordio, che ora trova un riconoscimento formale con la restituzione della casa della cultura. La presenza di Mattarella è un gesto particolarmente importante sul piano formale. Può essere (il 13 luglio 2020) l’inizio di un nuovo percorso”.

Daniel Reichel