Scuola, distanza e sostanza

Torniamo a parlare di scuola, perché dopo un lungo silenzio finalmente se ne discute molto a livello nazionale, tanto nelle riunioni politiche quanto nel settore dell’informazione. Molte questioni però restano irrisolte, e soprattutto l’approccio non appare del tutto adeguato. Nelle aule scolastiche italiane è il tempo delle grandi misurazioni. Trasformati in geometri e ragionieri, Governo e Dirigenti Scolastici sovrintendono al calcolo degli spazi necessari per rendere possibile la riapertura agli studenti a partire da settembre. E così, sulla base del “metro statico” o del “metro dinamico” (la distanza tra bocca e bocca in condizioni di immobilità o di movimento da parte dei ragazzi) – in riferimento al metro lineare o al metro quadrato, si valuta il numero di alunni che ogni aula sarà in grado di ospitare in condizioni di (presunta) sicurezza. Evviva! Stavolta si fa sul serio; in una situazione decisamente migliorata, c’è la reale intenzione di riprendere la scuola vera, quella con la presenza fisica effettiva e la socialità concreta del gruppo classe, senza voler peraltro disperdere la preziosa esperienza della didattica a distanza. Arriviamo buoni ultimi in Europa e forse avremmo potuto con accortezza ripartire prima, ma pazienza: ora l’essenziale è iniziare di nuovo.
Le misurazioni e i calcoli sono importanti, indubbiamente. Solo con criteri adeguati e numeri affidabili i Dirigenti potranno ricomporre le classi con una basilare tranquillità. Tutto dovrà certo essere realizzato con scrupolo, ma andrà anche considerato con un riserva di fondo sull’efficacia effettiva: come punto di riferimento si userà il metro statico che rende possibile una maggiore capienza delle aule rispetto a quello dinamico, altrimenti poche scuole disporrebbero degli spazi adeguati; d’altra parte è innegabile che gli studenti di qualsiasi età e di qualsiasi classe tutto sono meno che immobili nei loro banchi! È auspicabile, per ragioni di sicurezza sanitaria ma anche per esigenze didattiche, che il numero degli allievi per classe non superi di molto le venti unità; d’altronde andrà anche salvaguardata, nei limiti del possibile, l’integrità dei gruppi classe già formati da tempo.
Al di là degli aspetti tecnici, però, emerge una questione di fondo, forse meno urgente nelle scadenze ma a mio giudizio ineludibile. La domanda davvero centrale, oggi, non è ”quale classe?”, ma “quale scuola?”. Oltre a chiedersi quanti allievi avranno le classi e come saranno disposti in aula, occorre cioè domandarsi come sarà e dove andrà la scuola della riapertura. E’ mai possibile che uno Stato serio, secondo la cui stessa carta d’identità l’istruzione e la cultura rappresentano un diritto individuale e un dovere istituzionale implicitamente o esplicitamente sanciti (artt. 2, 3, 9, 33, 34 della Costituzione), non si curi della struttura e dei contenuti del proprio sistema formativo, particolarmente in una fase di difficile ricostruzione e di nuova partenza come il dopo-Covid? È mai possibile che una nazione che vuol dirsi pienamente partecipe del processo di integrazione europea a cui da sempre ha contribuito non senta l’esigenza di ridiscutere con i partner dell’UE gli elementi centrali di un impianto scolastico che uscirà necessariamente diverso dalla sconvolgente pandemia che ci ha travolto e da cui l’Europa sta forse faticosamente riemergendo? Davvero il problema della scuola per l’anno scolastico 2020-2021 (e per i successivi) si riduce a quello, effettivo ma in realtà del tutto artificioso, di quanti studenti-marionette si riesce a far entrare in un’aula-contenitore? Ci sono, di fatto, almeno due ordini di questioni sostanziali; ma di queste, chissà perché, non si parla né a livello istituzionale né a livello giornalistico, restringendo tutto agli aspetti pratici ed esteriori.
Esiste, innanzitutto, un problema di metodo. Come integrare la ripresa di un approccio diretto – basato sulle differenti e complementari modalità della lezione frontale, del dibattito, dei gruppi di lavoro, della verifica orale individuale o collettiva, della verifica scritta – con l’ottimizzazione della didattica a distanza, che nei mesi di chiusura ha costituito per la scuola non solo la scialuppa di salvataggio ma talvolta un utile strumento di lavoro e di approfondimento? Perché non confrontarsi sui vantaggi e sulle difficoltà dell’insegnamento telematico, certo non nuovo ma mai prima d’ora sperimentato in modo così diffuso? È una modalità di formazione che si è rivelata capace di stimolare l’autonomia di lavoro degli studenti, o un meccanismo sostitutivo che si è tradotto solo in un rapido e comodo espediente per trasmettere nozioni e domande? Perché poi non tentare un bilancio comune (dal punto di vista squisitamente didattico ma anche in una più ampia prospettiva sociale/formativa) della scuola d’emergenza realizzata nei mesi di chiusura forzata? E la didattica in presenza, che certo continua a essere la base naturale di ogni indirizzo docimologico, non deve essere essa stessa ripensata alla luce di una possibile/inevitabile alternanza con quella a distanza?
Accanto alla questione metodologica si pone quella dei contenuti. Non nascondiamocelo, la pandemia ci ha immersi in un periodo di svolta che con qualche enfasi potremmo definire “epocale”. Non sappiamo ancora verso quale direzione ci stiamo muovendo, ma non è comunque il caso di riflettere attentamente anche sui temi centrali del nostro fare scuola? Come ritrovarli, come valorizzarli e approfondirli, anche alla luce di quanto stiamo vivendo, dei problemi sociali e delle incerte prospettive di oggi? Traducendo questo interrogativo contenutistico in termini educativi, potremmo chiederci: per quali esigenze e a quali ruoli deve formare la scuola del presente/futuro?
Al Ministero o ai vertici politici non si chiede evidentemente di rispondere a domande che solo docenti e discenti sono in grado di affrontare. Le autorità competenti in tema di istruzione, però, potrebbero (dovrebbero?) proporre, facilitare il dibattito e progettare momenti di incontro, non limitarsi a circoscrivere i pericoli di contagio. Perché, invece, di tutto ciò non si parla? Perché anche i mass media, necessariamente alla ricerca di argomenti capaci di calamitare l’attenzione e la tensione del pubblico, ci illustrano solo i rischi e le esigenze di sicurezza soffermandosi sulle regole, sulle distanze obbligate, sulle mascherine senza tentare di comprendere come sarà nella sostanza la scuola dei prossimi mesi? Evidentemente è più urgente tranquillizzare i cittadini comunicando informazioni normative che non sviluppare inchieste su nuovi e forse inesistenti modelli scolastici.
Eppure per dare impulso a un confronto oggi assente – ma vero convitato di pietra della questione scolastica – basterebbe forse uno slancio creativo, simile a quello realizzato recentemente per dibattere dell’Italia del futuro e dei suoi problemi. Perché non indire gli Stati generali della Scuola italiana? Al di là del nome altisonante (che però sarebbe di forte richiamo proprio per l’assonanza con la recente assise politico-economica), perché non convocare un incontro nazionale in cui pedagogisti, dirigenti scolastici, docenti e rappresentanze di studenti possano discutere sui temi, sui metodi, sui problemi formativi della scuola post-coronavirus in Italia, magari anche con qualche aggancio verso l’Europa? Forse non riuscirebbe a risolvere i molti nodi tematici, metodologici, amministrativi. Sarebbe però un’occasione per discutere davvero di scuola tra presente e futuro. Sarebbe in ogni caso un modo per stimolare anche nel sistema informativo una forte sensibilizzazione intorno alla questione scuola e alla sua centralità. Utopia o progetto realizzabile?

David Sorani