Furio Jesi e la macchina mitologica

“Il crimine ha oramai una fisionomia precisa: il criminale ha un volto”. Così scriveva Mario Cervi sul Corriere della Sera il 17 dicembre 1969 in riferimento a Pietro Valpreda, presunto colpevole della strage di Piazza Fontana. Valpreda fu vittima di un vero e proprio linciaggio mediatico. Quotidiani e telegiornali lo descrissero come responsabile della strage e passarono anni prima di una sua assoluzione. L’opinione pubblica accettò per lo più la presunta colpevolezza di Valpreda, senza chiedere che si indagasse più a fondo. Attorno a lui fu costruita l’immagine del colpevole, fu raccontata ed accettata. Un metodo, spiega David Bidussa in questa puntata di “pagine e svolte”, che ispirò l’analisi dello storico e germanista Furio Jesi sulla macchina mitologica. “Jesi si chiese come si costruisce un’accusa e un colpevole. A lui non interessava la figura dell’anarchico Valpreda ma capire perché quella vicenda fu creduta, perché fosse credibile l’individuazione di quel colpevole”, spiega lo storico sociale delle idee. Jesi analizzò il mito come “macchina che riproduce emozioni, sensazioni, convinzioni che una persona o un gruppo di persone si fanno ascoltando delle narrazioni”. E dopo avervi riflettuto, prosegue Bidussa, Jesi non a caso decise di scrivere un nuovo saggio dedicato all’accusa dell’omicidio rituale fatta agli ebrei, sopravvissuta per secoli nonostante la sua falsità.