Machshevet Israel
L’uso delle parole

Una delle prime battute scherzose in ebraico che ho imparato vivendo in Israele riguarda il valore tagliente di ciò che esce dalla nostra bocca. Interrogato dagli addetti alla security se avessi un coltello o un’arma con me, a volte la risposta era: lò, raq ha-pè shelì: no, solo la mia bocca. Non è una battuta originale, ma in quanto metafora conserva la sua dose di verità: la lingua può essere usata come arma, le parole come coltelli, per ferire e persino uccidere, moralmente, qualcuno. Non si spiega altrimenti l’insistenza con cui i maestri mettono in guardia contro la leshon ha-ra‘, la malalingua, concetto vasto che va dal pettegolezzo insinuoso all’aperta calunnia. Il cattivo uso delle parole, nel musar o etica ebraica tradizionale, si dice anche onaat devarim, che si potrebbe rendere con l’espressione “vessazione attraverso le parole”. Quelle dette e quelle taciute, quelle di troppo che soffocano e quelle negate quando invece sarebbero dovute. È un concetto interessante da indagare, parente del divieto di ingannare e angustiare, opprimere e fare sopruso, come compare in Shemot/Es 22,20-24 e in Wajqrà/Lv 19,33. Oggetto di quest’atteggiamento immorale è il debole istituzionale: lo straniero, la vedova e l’orfano, chiunque non abbia mezzi giuridici per difendersi e dipenda dal senso di giustizia (tzedaqà) di un prossimo più forte. E sempre dalla sfera dei comportamenti giusti deriva il senso della parola onaà, che tecnicamente indica in ambito commerciale l’oppressione che deriva da un prezzo troppo basso, con il quale il venditore non ottiene alcun guadagno e ci rimette, o da un prezzo troppo alto, caso nel quale a rimetterci, ad essere ingannato e oppresso è il compratore (Wajqrà/Lv 25,17). Onaà è dunque la vessazione, o il bullismo, in tutte le sue forme.
Samson Raphael Hirsch insegna: “Non pensare che l’unico modo per affliggere e opprimere il tuo prossimo sia agire contro di lui; anche con la parola, con una fugace parola – quella parola che ti è stata elargita per compiere opere grandi e buone – tu puoi infliggere ferite e colpi dolorosi, puoi distruggere la tranquillità e persino la felicità di qualcuno in modo più irreparabile di quel che accade con azioni violente e cattive”. Lo scopo della parola umana, secondo questo grande maestro del XIX secolo, è quello di alleviare le sofferenze, non di aggravarle. La parola è il dono e la facoltà più nobile in un essere umano. “Ma se tu trasformi questa parola destinata a portare vita e benedizione in un’arma affilata e letale; se provi gusto a prenderti gioco dell’inesperto e del meno intelligente, nell’ingannarlo e nell’imbarazzarlo invece di insegnargli e correggerlo; se ridicolizzi lo sventurato… se fai vergognare il prossimo proprio mentre lo correggi; se degradi tuo fratello con diminutivi o nomignoli… Sappi che il Signore benedetto è giusto… e le lacrime di chi è offeso arrivano direttamente al Trono dell’Onnipotente” (Chorev, Mishpatim 51). Hirsch conclude facendo un elenco dettagliato di tutti i diversi tipi di onaat devarim: prendere in giro, ingannare, imbarazzare, punzecchiare, esporre al ridicolo, farsi beffe, burlarsi, affibbiare nomignoli con disprezzo. La morale dei rabbanim è chiara: la vessazione con le parole è più grave dell’offesa tramite un’azione (cfr. Bava Metzià 58b, dove si fa esplicito riferimento alle parole tra marito e moglie). Si può aggiungere, tale vessazione è anche la più difficile da riparare perché il male che provoca è meno visibile della ferita fisica.
Su questo si era già espresso il Maimonide nel Mishné Torà, Hilkhot de’ot, ossia le norme morali (VII,4): “Di colui che fa della maldicenza per scherzo o con leggerezza, pur senza essere mosso da odio, Salomone dice: ‘È come un pazzo che scaglia tizzoni ardenti e frecce di morte e poi si giustifica: Stavo solo scherzando’ (Proverbi 26,18-19)”. Vasti incendi possono avvampare da un fiammifero o da un mozzicone buttati a caso. Così le parole, se dette a modo e al momento giusto, sanano e illuminano; se dette fuori luogo e con cattive intenzioni, distruggono e spengono vite. Ma l’ammonimento vale anche per le parole buone e oneste e vere che potrebbero essere dette, ma sono taciute o negate per le più diverse ragioni. Oggi significa anche: non rispondere a una email (specie si reiterata), posticipare risposte dovute, far attendere chi è in sala d’attesa oltre il necessario o prolungare i tempi di un responso oltre il ragionevole (magari con il pretesto che la situazione è complessa, che ci vuole un supplemento di indagine, che si tratta di una messa alla prova…). L’ombra dell’onaat ha-gher aleggia su questa ingiustificata assenza di parole, che diventa senza volerlo una forma di vessazione. A ogni she’elà (domanda) corrisponde una teshuvà (risposta). Può anche essere una risposta negativa, ma risposta sia. Se poi la domanda viene dallo straniero o dalla vedova o dall’orfano – fuor di metafora da chi è senza diritti o si trova fuori diritto – la Torà impone: ‘non ledere’ il suo diritto, ‘non vessare’ il suo animo, ‘non ingannare’ la sua vita. Valga qui il verso poetico di Mario Luzi: “Vola alta parola, cresci in profondità, tocca nadir e zenit della tua significazione, giacché talvolta lo puoi”.

Massimo Giuliani, Università di Trento