Scuola e inadeguatezza culturale
Siamo a fine agosto, le scuole di ogni ordine e grado dovrebbero riaprire fra pochissime settimane e ancora il futuro prossimo è avvolto in una nuvola indistinta. Il comitato tecnico-scientifico che offre consigli al governo in materia di Covid produce in continuazione indicazioni contraddittorie che gettano nella confusione i dirigenti scolastici. I quali a loro volta eseguono le direttive di un ministero che programma a occhi chiusi, offrendo una certezza di apertura delle classi in presenza che non fa i conti con la disastrosa situazione strutturale dell’edilizia scolastica italiana. In tutto questo, tutti ma proprio tutti sanno perfettamente (ma evitano di dirlo) che la riapertura delle scuole genererà senza ombra di dubbio un’immediata estensione dei contagi. È sempre stato così, e il Covid non c’entra nulla: a scuola ci si becca l’influenza (lo sa qualsiasi genitore che, anzi, favorisce la frequenza dei figli alle scuole d’infanzia e alle elementari per esaurire il più rapidamente possibile la stagione delle malattie infettive esantematiche). E poi c’è l’esperienza di altri paesi che hanno scelto di non chiudere le scuole e hanno pagato un caro prezzo in termini di contagi.
Quello che tuttavia stupisce è che si parli quasi solo di mascherine (sì o no), di distanze fra i banchi (nuovissimi) e di riorganizzazione degli spazi. Manca invece una riflessione culturale e politica sul futuro della scuola e del sistema educativo. La reazione del corpo insegnanti, degli studenti e dei genitori nei giorni del lockdown è stata esemplare. Con scarsissima preparazione tecnologica e senza direttive certe si è riusciti a portare a conclusione un anno scolastico in maniera dignitosa. Ma nel mentre si compiva questa impresa, sarebbe stato necessario attivare un dibattito sul dopo. Perché è chiaro che quel che è accaduto questa primavera ha cambiato completamente la prospettiva di lavoro in ambito scolastico ed è necessario cogliere l’occasione per apportare con decisione grandi trasformazioni. Si tratta di lavorare a mio giudizio su diversi livelli: adeguare tecnologicamente le strutture scolastiche con connessioni veloci a banda larga, formare i docenti all’uso delle nuove tecnologie di comunicazione, realizzare libri di testo (o pacchetti educativi sul web) che facilitino gli insegnanti nell’uso delle tecnologie, organizzare in maniera diversificata la socialità interna alla scuola creando classi tematiche e non più per età. E poi ripensare i programmi, che sono stravecchi e non tengono conto degli enormi e rapidissimi cambiamenti che stiamo vivendo. Tutto questo pretenderebbe l’azione di una classe politica matura, che improntasse i propri progetti per il Paese non sui battibecchi con l’avversario di turno, ma prospettando un disegno di governo che favorisca le nuove generazioni di italiani ed europei. Su questo tema il vuoto è assoluto, in tutti i campi politici. E invece dovrebbe essere il punto centrale su cui chi governa (o chi aspira a governare) dovrebbe lavorare. Perché se ci si limita a ragionare su mascherine e banchi, e non ci si concentra su cosa si farà su quei banchi (o nelle lezioni sulle piattaforme virtuali), con quale personale e sulla base di quali programmi, per disegnare quale prospettiva culturale per il nostro Paese, si finirà con il crescere un’intera generazione di ragazze e ragazzi inadeguati ad affrontare le sfide del futuro.
Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC
(21 agosto 2020)