Unicità

Si riaccende l’annosa questione se gli ebrei siano universalisti o particolaristi, e su come sia meglio essere, e quella ad essa collegata dell’unicità della Shoah. Si riaccende, stranamente, in uno stretto collegamento con il dibattito, che prende spesso toni da scomunica, sul rapporto che gli ebrei hanno, o dovrebbero avere, con Israele e con la politica del suo governo, un tema di cui francamente stento a vedere il collegamento con la prima questione.
L’inizio della discussione sull’unicità della Shoah è di 53 anni fa. È allora, nel marzo 1967, che la rivista Judaism tenne a New York un convegno dedicato al tema “Jewish values in the post-Holocaust future” con quattro prestigiosi intellettuali: tre filosofi, Elie Wiesel, non ancora premio Nobel, Emil Fackenheim e Richard Popkin, e un critico letterario, George Steiner. E’ in questo dibattito che, soprattutto ad opera di Elie Wiesel, si affermò l’idea dell’unicità della Shoah. Ma su quali contenuti avrebbe dovuto fondarsi? Per Wiesel, che così rovesciava in esaltazione la deprecazione della passività delle vittime, si trattava “di un capitolo glorioso della storia eterna degli ebrei”, mentre per Steiner si trattava di un “obbligo verso l’intera umanità”. Il dibattito era già tutto là. E il fatto che si fosse nell’imminenza della guerra dei Sei Giorni, tre mesi prima, non porta dentro questo dibattito il tema di Israele. Il discorso è su memoria e identità.
Intendiamoci, da storica credo che questa interpretazione in chiave di unicità sia stata molto importante per delimitare e circoscrivere l’oggetto “Shoah”, fino ad allora confuso e indefinito. E che esistano molti elementi di specificità, anche molto forti, come molti elementi di somiglianza con altri genocidi (genocidi, non violenze indiscriminate). Ma ad un certo punto, dopo gli anni Ottanta, l’idea dell’unicità, come è stata formulata, è diventata un criterio religioso, un dogma, una gabbia che impedisce la ricerca e la libera discussione. Una strada verso quella che è stata definita “la concorrenza delle vittime”. Molti storici vanno sempre più affermando la loro critica all’idea di unicità, non ultimo Jehuda Bauer, spesso citato invece come sostenitore di tale idea, che nel suo ultimo libro afferma invece nettamente che la Shoah non è unica, ma semmai estrema. Come storica, non credo di dover sottoporre la mia ricerca a questa gabbia, come ebrea non penso che l’idea dell’unicità sia una condizione dell’identità ebraica di oggi. Ci sarebbe molto altro da dire, ma non è il caso in questa sede. Vorrei solo ricordare che nel chiuso dei ghetti in Polonia, a Varsavia come a Lodz, gli ebrei si passavano di mano in mano il libro di Werfel I quaranta giorni del Mussa Dagh identificando nella sorte toccata agli armeni il preludio a quella che sarebbe loro toccata, senza sentirsi, né i sionisti né i bundisti che avrebbero poi dato vita alle rivolte dei ghetti, sminuiti per questo nella loro identità di ebrei e di vittime dello sterminio.

Anna Foa