Gli effetti su Riad

L’accordo tra Israele, gli Emirati Arabi e il Bahrein ha colto tutti di sorpresa, e sembra sia stato accolto con seppur moderato entusiasmo da persone di svariate tendenze e simpatie politiche. Eppure tra le numerose analisi che ho avuto modo di leggere pare che le reali motivazioni sfuggano un po’ a chiunque. Sino a qualche mese fa gli argomenti che riguardavano la regione erano il “piano di pace” di Donald Trump, l’annessione imminente della Valle del Giordano e il tramonto della “soluzione a due stati”. Adesso “l’accordo del secolo” è diventato quello tra Israele e due micro staterelli monarchici ubicati sul Golfo Persico, i quali però hanno un ruolo e un potere non indifferente, non solo nel mondo islamico. Le ipotesi abbondano, si pensa a un asse anti-iraniano e anti-turco, a interessi commerciali, militari e culturali, a orizzonti molti più ampi che presto riguarderanno altri stati del mondo arabo, tra cui l’Arabia Saudita. Probabilmente niente si esclude, ciò che per adesso potremo affermare è che non si tratta di un “accordo di pace” – come fu con la Giordania e con l’Egitto -, ma semmai di una normalizzazione di relazioni in parte già esistenti, e che il ruolo di Trump è magari più marginale di ciò che è stato sbandierato per favorirlo alle prossime elezioni. Ma accodandosi all’intervento di Davide Assael, rimane infatti da chiedersi in quest’era populistica quanto questo accordo possa giovare e interessare i singoli elettori e abitanti dei rispettivi paesi. Certo è entusiasmante sapere che a Dubai si potrà mangiare kasher, che ci saranno voli diretti da Tel Aviv al Bahrein, o che il Beitar – per un tifoso come me dell’Hapoel TLV, ironizzo – potrebbe finire, scherzi della sorte, in mano a qualche sceicco di Abu Dhabi. Ma nel concreto che cosa cambierà al disoccupato di Detroit, alla commessa di un supermercato di Ma’ale Adummim, e al taxista di Ramallah o di Manama? Se gli effetti si vedranno col tempo, l’accordo porta comunque con sé un significato fortemente simbolico: l’accettazione della presenza di Israele nella regione da parte di due paesi legati a doppio filo con l’Arabia Saudita, la quale per adesso sembra approvare silenziosamente. Parte del mondo islamico sunnita guarda da tempo più verso Ankara che verso Riad, ma l’egemonia saudita sull’Islam rimane comunque indiscussa, non solo per la custodia dei luoghi sacri. La monarchia saudita grazie alle entrate petrolifere costruisce moschee, finanzia organizzazioni internazionali e caritatevoli, dona borse di studio a giovani studenti, e soprattutto ha esportato negli anni la sua versione del Islam, il wahhabismo, nel resto del mondo, con conseguenti effetti drammatici sulle culture musulmane locali e sulla propagazione di gruppi fondamentalisti. Su alcune testate, tra cui IsraelHaYom, in questi giorni viene riportato che Abdulrahman al Sudais, celebre imam della Grande Moschea della Mecca, avrebbe pronunciato all’inizio del mese una khutba, un sermone, detto della “normalizzazione”, in cui raccontava dei buoni rapporti di Maometto nei confronti dei suoi vicini ebrei, esortando così ad evitare “emozioni appassionate”, mostrando maggior tolleranza verso le altre religioni. Lo stesso al Sudais era celebre in passato per i suoi sermoni antisemiti, nei quali invece augurava la distruzione di Israele e del popolo ebraico.
Qualcosa sta davvero per cambiare? Auguriamoci per adesso, e auguro a tutti voi, un nuovo anno, un 5781, all’insegna della pace, della salute e della reciprocità.

Francesco Moises Bassano

(18 settembre 2020)