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Longobardi e musulmani

La settimana scorsa ricordavo gli album di famiglia, questa settimana vorrei fare l’elogio dei libri di scuola. In uno di questi volumi abbandonato sugli scaffali, per puro caso, ho fatto una piccola scoperta su Se questo è un uomo, che vorrei condividere con i miei lettori.
«La legge feroce che vige nel Lager», si sa, discende dal celeberrimo verso di Manzoni in Adelchi: «Una feroce/ forza il mondo possiede e fa normarsi/dritto» (Atto III, scena III, vv. 33-4). Poche righe sotto vengono presentati «i musulmani», i non-uomini: «Benché inglobati e trascinati senza requie dalla folla innumerevole dei loro consimili, essi soffrono e si trascinano in una pacata intima solitudine, e in solitudine muoiono o scompaiono, senza lasciar traccia nella memoria di nessuno».
Non mi ero mai accorto, non se n’è accorto nessuno che Levi si appoggia qui a un testo, che non manca mai nelle antologie della letteratura italiana in uso nel suo Liceo, ma ancora adottato nei licei classici ai miei tempi. Questo testo veniva fatto leggere come premessa al coro di Adelchi sul «volgo disperso che nome non ha». Sono le righe finali del cap. II del Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica, dove si legge: «Un’immensa moltitudine d’uomini, una serie di generazioni, che passa sulla terra, sulla sua terra, inosservata, senza lasciarci traccia, è un tristo ma importante fenomeno, e le cagioni d’un tal silenzio possono riuscire più istruttive che molte scoperte di fatto». Poche righe dopo, discorrendo dei «prominenti ebrei», Levi riprende il Discorso alla lettera, quando scrive che «costituiscono un triste e notevole fenomeno umano».
Dai Longobardi alla massa anonima di italiani oppressi, che passa sulla terra senza lasciare traccia, il passo è breve e conferma come la letteratura sia stata la grande fonte ispiratrice di questo capolavoro: Manzoni agisce nel sottosuolo del testo, con la ripresa di sintagmi anche piccoli, che vengono adoperati e magari capovolti. Si pensi all’insistita ripetizione, in Se questo è un uomo, dell’espressione «Ho imparato», rifratta e variata («Abbiamo imparato», «Abbiamo imparato che tutto serve», «Abbiamo imparato che d’altronde tutto può essere rubato», «Abbiamo dovuto apprendere l’arte»). Per contrasto, il pensiero corre al sorridente finale dei Promessi sposi, con Renzo che tira le somme delle sue disavventure: «Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire: ‘Ho imparato, diceva, a non mettermi nei tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito …».
Il lettore mi perdonerà. Ormai non riesco più a liberarmi della filologia dilettantesca, un vizio impunito. Per chi non soffra di questa dolorosa malattia, l’insegnamento da dare è un altro. Mai buttare via gli album con le foto di famiglia, mai lasciare che la polvere si deponga sulle nostre antologie liceali.

Alberto Cavaglion