Periscopio – Due Americhe
“Antipatico, ma…”. Diverse volte abbiamo visto, negli ultimi mesi, degli articoli iniziare in questo modo, o in modi simili. “Antipatico, ma dice la verità”; “Antipatico, ma fa le cose”; “Antipatico, ma coerente”; “Antipatico, ma gli altri sono pericolosi”. Ecc. ecc. L’oggetto di tali commenti, ovviamente, è il Presidente uscente, nonché aspirante rientrante alla Casa Bianca. Sappiamo benissimo, ovviamente, che una larga maggioranza dei commentatori nostrani sono a lui fieramente avversi, e, se si votasse in Italia, lo sfidante democratico vincerebbe, probabilmente, con largo margine di vantaggio. Ma è comunque interessante analizzare i commenti di coloro che, nonostante le riserve sul carattere e i modi del personaggio, si dichiarano comunque a lui favorevoli. Interessante soprattutto perché a tale categoria appartengono molti sostenitori di Israele, che, comprensibilmente, apprezzano il forte sostegno dato dal Presidente allo stato ebraico, e temono che, con un cambio di Presidenza, le cose possano cambiare.
Al riguardo, ho pubblicamente apprezzato alcune scelte coraggiose prese da Trump, come lo spostamento dell’Ambasciata a Gerusalemme (semplice presa d’atto della realtà, secondo me, oltre che atto dovuto, essendosi il Congresso più volte pronunciato in tal senso), lo sganciamento dallo sciagurato accordo sul nucleare con l’Iran (che fa piovere milioni di dollari nelle tasche di un regime criminale e terroristico) e il forte impegno preso per la realizzazione degli accordi di pace tra Israele e i Paesi arabi del Golfo (che hanno finalmente spezzato il riflesso condizionato del finto unanimismo panarabo in chiave antisionista). E potrei aggiungere anche i concreti interventi in chiave antiterrorista, come nel caso Soleimani (anche se non è mia abitudine esultare quando qualcuno viene eliminato, sia pure per giuste ragioni). Ripeto: apprezzo e ringrazio. Ma, nonostante l’apprezzamento e il ringraziamento, ritengo che quattro anni di questa presidenza siano francamente sufficienti, e che un altro quadriennio di guida dell’abile e spregiudicato imprenditore (che però, chi sa come mai, paga di tasse molto meno di me) ci potrebbe essere risparmiato. Anche perché a sfidarlo non c’è quell’estremista di Sanders che lui avrebbe certamente preferito come avversario, ma che, purtroppo per Trump, e per fortuna nostra, non ha vinto la nomination democratica.
Anche io, forse, sono tra quelli che lo ritengono antipatico? Se dicessi che la simpatia e l’antipatia non c’entrano proprio niente, probabilmente non direi il vero. Perché è vero che è francamente difficile, sull’intero pianeta, trovare una persona più respingente di “the Donald”. Ma il problema non è quello della simpatia o dell’antipatia. La questione, infinitamente più seria, è in che direzione si desidera che si evolvano i valori a base della grande democrazia americana. Perché non dobbiamo mai dimenticare che in questo grande Paese, da secoli, si fronteggiano due anime, opposte e confliggenti, in irriducibile contrasto l’una contro l’altra. Una è quella dell'”american dream”: il sogno di libertà, uguaglianza, riscatto che ha portato milioni di derelitti a muoversi dalle loro antiche lande di servitù, miseria, obbedienza, ad attraversare l’oceano in viaggi di fortuna, per valicare, col cuore gonfio di timore e speranza, la “porta d’oro” della meravigliosa poesia, incisa sulla base della Statua della libertà, “The new Colossus”, di Emma Lazarus; il sogno di una Terra Promessa di liberi e uguali, scolpito in quella Dichiarazione d’Indipendenza che ha segnato – o ci illudevamo che avesse segnato – una svolta definitiva nella storia dell’umanità; l’impegno di generosità e altruismo che ha portato, per due volte nel secolo scorso, tanti giovani soldati americani a tornare, armi in pugno, nella vecchia Europa dei loro antenati, per combattere e morire in nome della libertà. E l’altra è quella dell'”american nightmare”: quella che ha portato a costruire questo sogno sull’incubo dello sterminio dei nativi americani, sulle inaudite sofferenze inflitte a milioni di africani rapiti dai loro villaggi per essere costretti a costruire, nell’abominio di due secoli di mostruoso schiavismo, con la loro fatica, la loro umiliazione e il loro sangue, la felicità dell’uomo bianco; quella che, anche dopo la guerra di secessione, ha continuato a coltivare nel suo seno la rabbia cieca e la ripugnante lebbra del razzismo.
È molto difficile, tra le due Americhe, trovare un punto d’incontro, una via di mezzo. Un giovanissimo Presidente, nel suo discorso d’insediamento, nel gennaio del 1961, giurò al mondo intero che i cittadini degli Stati Uniti non sarebbero arretrati innanzi a nessun sacrificio, a nessuna rinuncia pur di continuate a difendere, in tutto il mondo, la causa della libertà. Un anziano Presidente ha detto invece, cinquantasei anni dopo, “America first”. D’accordo. Prendo atto, che non essendo io cittadino statunitense, da quella terra lontana non sarà mai mosso un dito per me. Alla mia età, è certo arrivata l’ora di smettere di credere alle favole. “America first”. Ma, se è lecito chiederlo, quale delle due Americhe, signor Presidente? E in nome di quale delle due si deve difendere Israele? Della prima, o della seconda?
Francesco Lucrezi, storico