Salvarsi nel lager (con il farsi)
Ha occhi enormi Nahuel Pérez Biscayart, il giovane attore argentino di origini basche protagonista di Persian Lessons. Enormi quando all’inizio del film fugge incespicando nel bosco, lungo i binari, verso il pubblico già ipnotizzato, enormi quando scambia il suo panino con quel libro in farsi che sarà la sua salvezza. E ancora più grandi quando, prigioniero nel campo di concentramento, incontra l’ufficiale nazista che gli salverà la vita. L’ufficiale, interpretato magistralmente da Lars Eidinger – ha un sogno: aprire un ristorante a Teheran, una volta finita la guerra. Ha bisogno di imparare il farsi, e quel giovane prigioniero, che per salvarsi dalla scarica di mitragliatrice ha sostenuto di non essere ebreo portando a prova proprio quel libro appena barattato, gli viene portato da un giovane ufficiale desideroso di mettersi in mostra. Non serve altro. Non c’è molto altro. Potrebbe essere il classico filmone americano, una storia di sogni, gelosie e ripicche ambientata in un lager, condita con un poco di moralismo e qualche risata. Ma la sceneggiatura di Ilya Zofin, che del film è anche produttore, e la sensibilità di Vadim Perelman, pluripremiato regista ucraino naturalizzato canadese basato a Los Angeles, ne hanno fatto qualcosa di completamente diverso. C’entra moltissimo la bravura di Biscayart e Eidinger, certamente, ma la storia non è affatto banale. Che sia vera – come ha spiegato Ilya Zofin raccontando di quando, quindicenne, ne aveva letto in un giornale tedesco – è poco rilevante. Ne è stato anche tratto un libro, di cui però lo sceneggiatore ha saputo solo a riprese iniziate, ma la sua forza è altrove, e in queste settimane tormentate assume un rilievo ancora superiore a quello che tanti applausi ha strappato alla Berlinale, dove Persian Lessons ha avuto la sua prima proiezione mondiale.
Il giovane prigioniero, figlio di un rabbino, deve insegnare una lingua di cui non conosce una sola parola. Essere credibile è questione di vita o di morte. E inventarsi un vocabolario non basta, deve trovare un modo per ricordarlo, senza potersi scrivere neppure una parola, e riuscire a convincere un ufficiale nazista sempre più sospettoso. O forse pienamente consapevole della truffa.
È in questa ambiguità che si sviluppa la storia, e il rapporto fra di loro. A reggere tutto il farsi, una lingua sconosciuta che diventa una lingua inventata e poi una lingua segreta. E crea quello spazio in cui due sconosciuti che non potrebbero essere più diversi tra di loro, un comandante delle SS e il figlio del rabbino, iniziano a parlarsi davvero. Si scopre, l’ufficiale nazista che sogna di aprire un ristorante: è diventato cuoco per riuscire a mangiare e per procurare il cibo alla sua famiglia, poverissima. Nazista per necessità, non per convinzione, arriva a scrivere e declamare poesie in quel finto farsi che lo porterà alla perdizione, e comunica con il suo protetto usando quello stesso vocabolario, inventato. Inventare una lingua per potersi parlare. Per salvarsi, forse. Il giovane prigioniero capisce di potersi permettere molto, anche di accusare l’ufficiale di essere un assassino. Un assassino che considera i suoi prigionieri degli esseri inutili, senza identità, persone di cui non vale la pena neppure di chiedere il nome. Ma sono proprio i nomi dei prigionieri a permettere la salvezza, perché è imparandoli a memoria uno per uno che Gilles, il protagonista, riesce a ricordare il suo finto farsi. E, una volta salvo, questo può fare: elencare uno per uno i nomi dei suoi compagni di prigionia. Guardando nel vuoto, davanti a ufficiali americani increduli. Restano il suo sguardo, i suoi enormi occhi segnati, e quei nomi, duemilaquattrocento, uno dopo l’altro.
Ada Treves, Pagine Ebraiche Aprile 2020