Spuntino – Empatia esemplare

Che cos’ha di tanto speciale Yitrò, suocero di Mosè, per meritarsi che la parashà del dono della Torah gli venga intitolata? E ancora, considerato che il sacerdote midianita ha sette nomi (Rashì, Es. 18:1), perché scegliere proprio questo? Yitrò è così contento in cuor suo per il bene che D-o ha fatto al popolo di Israele che, raggiunto il suo genero, benedice il Signore. È felice anche se la cosa non lo riguarda direttamente (non ha vissuto la schiavitù) ed è totalmente estraneo alla vicenda (non ha partecipato alla miracolosa liberazione, neanche da spettatore). Quindi agisce in maniera del tutto disinteressata oltre che con profonda sincerità. È la prima volta, dopo l’esodo, che la ben nota formula “Barukh HaShem” (Es. 18:10) compare nella Torah. Il fatto che poi sia Yitrò a pronunciarla è evidenziato, senza mezzi termini, nella Ghemarà (TB, Sanhedrin 94) dove si considera che la sua benedizione potrebbe addirittura andare a demerito di chi, tra coloro che avevano preso parte attiva all’epica vicenda, non l’ha espressa prima di lui. La vera novità è quindi che D-o viene benedetto da un estraneo. Il re Davide nei Salmi (4:7-8) dice che il bene autentico consiste nel compiacersi del successo altrui, nel provare un’intima gioia quando qualcun altro ha motivo di festeggiare. Yitrò si rallegra per la buona sorte del popolo ebraico prima di diventare ebreo. Il suo stato d’animo è reso bene dall’espressione “va-yichad” (Es. 18:9) che richiama la parola “yachad” (= insieme). Questo insegnamento, la capacità di gioire per il benessere di altri, è anche una premessa essenziale per ricevere la Torah, altrimenti non si può verificare la condizione di unità compatta “ke-yish echad be-lev echad” (= come una sola persona con un cuore unico) raggiunta dal popolo ai piedi del monte Sinai (Rashì, Es. 19:2). D’altra parte questa è una prerogativa di Abramo, che aveva dedicato la sua vita agli altri. Ugualmente si può dire di Aronne, che era contento “in cuor suo” del ruolo di guida del popolo assegnato a suo fratello minore Mosè e che faceva di tutto per rappacificare il prossimo. Lo stesso Mosè si era dichiarato pronto a farsi cancellare dalla Torah per salvare il suo popolo. Tutti questi atteggiamenti sono riconducibili al principio cardinale di “amerai per il prossimo tuo come per te stesso.” Ora che abbiamo spiegato la grandezza di Yitrò cerchiamo di rispondere alla seconda domanda che ci siamo posti in apertura: perché nello specifico contesto viene scelto questo nome (Yitrò) e non uno degli altri sei? Rashì (Es. 18:1) spiega che aggiunse (“yiter”) una porzione di Torah, rimandandoci a un versetto successivo (Es. 18:21): “ve-atà techezè” (= e tu sceglierai). Di che porzione si tratta? Dopo il ricongiungimento con il suo illustre genero, Yitrò non si limita a esprimere una critica, osservando che così “non va bene,” riferendosi al fatto che Mosè affrontava da solo le questioni di seicentomila ebrei risolvendone i contenziosi secondo la Legge (Es. 18:16-17). Yitrò prosegue: “ti consiglio” (Es. 18:19), e propone a Mosè di incaricare dei giudici con vari livelli di responsabilità. A questo punto gli indica il profilo ideale dei candidati (Es. 18:21): persone tutte di un pezzo (obiettive), timorate di D-o, credibili (sincere) e incorruttibili. Yitrò ci insegna non solo che una critica deve essere seguita da una proposta costruttiva, ma anche quali sono i tratti ideali a cui dovremmo anelare.

Errata corrige: nello Spuntino della settimana scorsa avevo scritto erroneamente “Cantico dei Cantici” invece di “Cantica del Mare.” Me ne scuso con i lettori e ringrazio Rav Gianfranco Di Segni di avermi segnalato la svista.

Raphael Barki