Il direttore della storica ong ebraica
“Processo Chauvin,
spartiacque di civiltà”

Gli occhi del mondo puntati su Minneapolis, dove nelle prossime ore arriverà la sentenza sul caso George Floyd. Alla sbarra l’ex poliziotto Derek Chauvin: se condannato, rischia fino a 75 anni di carcere.
Un processo visto da alcuni come un vero e proprio spartiacque di civiltà. È la lettura che fa Jonathan Greenblatt, direttore dell’Anti-Defamation League, la storica ong ebraica da oltre un secolo in prima linea contro antisemitismo e razzismo in ogni sua declinazione. Nelle sue parole c’è attesa per capire se “questa sentenza segnerà un passo importante nel perseguimento di giustizia e responsabilità” o se al contrario “sarà la fotografia di un sistema che non funziona, incapace di andare avanti”.
Greenblatt, recentemente confrontatosi su questo e altri temi in una grande intervista con Pagine Ebraiche, ricorda altri episodi di cronaca che hanno riportato l’attenzione sugli abusi della polizia e sul complesso rapporto, fatto di molte ombre, con la comunità nera, latina e le diverse minoranze. A partire dall’uccisione a Minneapolis del 20enne Daunte Wright e a Chicago del 13enne Adam Toledo.
Vicende “che fanno orrore” al pari delle numerose sparatorie di massa delle ultime settimane, diverse nelle dinamiche e motivazioni ma che tutte insieme, osserva con sconforto, contribuiscono ad alimentare un clima di “odio, paura, tristezza”. Il silenzio non è un’opzione contemplata. Greenblatt ricorda nel merito un insegnamento di Elie Wiesel: “Bisogna sempre prendere posizione. La neutralità aiuta l’oppressore, mai la vittima. Il silenzio incoraggia il tormentatore, mai il tormentatore”.
Per questo, sottolinea, ora più che mai è necessario esprimersi in modo chiaro sul bisogno che c’è di uguaglianza e di giustizia “nei confronti della comunità nera, di cui fanno parte anche numerosi ebrei, senza allentare un analogo impegno nei confronti della comunità latina, di quella asiatica, della stessa comunità ebraica”. Una battaglia vitale per il futuro di una nazione che, conclude il direttore dell’Adl, è chiamata a parlare “come un’unica voce”.