Il sionismo e Dante

Nella mia nota di mercoledì scorso, ho chiarito che il tema “Dante e gli ebrei” può significare tre cose distinte: la visione che di Dante e della Commedia hanno avuto, nelle varie epoche e nei vari frangenti storici, gli ebrei; la visione che degli ebrei e dell’ebraismo ha avuto Dante; l’interpretazione, più o meno fedele o deformata, che del pensiero di Dante riguardo agli ebrei è stata fornita nel tempo.
Nelle mie brevi annotazioni mi occuperò sostanzialmente soltanto del secondo punto, e, in qualche misura, del terzo, mentre tralascerò il primo, per il quale non avrei (ma, invero, non ce l’ho neanche per gli altri due) la competenza necessaria, e riguardo al quale, inoltre, Pagine Ebraiche ha offerto e offrirà dei contributi di alto valore, provenienti dalla mano di studiosi di elevata statura. Non posso esimermi, però, dal formulare un paio di osservazioni a proposito del testo, particolarmente illuminate, scritto da Asher Salah, intitolato “Dante e l’ebraismo, rapporto sempre vivo”, apparso su queste pagine lo scorso 9 aprile.
Riprendendo un’espressione di Harold Bloom, Salah scrive che gli ebrei italiani, non diversamente dai loro vicini cristiani, di fronte a “un modello, come quello dantesco, immediatamente innalzato allo statuto di fondatore dell’identità linguistica e culturale, prima ancora che politica e nazionale, dell’Italia”, hanno subito una sorta di “anxiety of influence”, una “angoscia dell’influenza”, nel senso dell’oggettiva difficoltà di fare i conti con una presenza tanto “sublime “ quanto “ingombrante”: il peso dell’obbligatorio confronto con un retaggio tanto unico e formidabile da diventare ineludibile e, per certi versi, schiacciante.
Di fronte a tale colonna portante della nostra civiltà, l’ebraismo italiano avrebbe assunto diverse posizioni. Per quasi mezzo millennio, nota Salah, Dante è stato letto e conosciuto, negli ambienti ebraici, ma molto poco fatto oggetto di approfondito studio, e citato assai di rado. Nell’Ottocento, invece, il poeta, quale paladino del riscatto civile e morale d’Italia, “viene trasfigurato in profeta dell’emancipazione ebraica e in un’icona degli ideali risorgimentali”, tanto da essere addirittura paragonato, nel 1847, da Elia Benamozegh, a Mosè: “Chi di voi nelle umane e divine glorie ai portentosi nomi di Mosè e di Dante non inchina reverente la testa?”. Ma dopo le cose cambiano, giacché i due grandi ideali che avrebbero catturato gran parte dell’ebraismo europeo, il sionismo e il marxismo, non avrebbero più avuto bisogno di Dante.
Per i sionisti la terra da riscattare e redimere non sarebbe più stata l’Italia, ma Eretz Israel, e la costruzione del nuovo mondo imponeva di recidere vecchie e inutili radici. Nella rinascente Terra Promessa, le varie lingue del popolo disperso, tra cui l’italiano, furono viste, da una corrente di pensiero, come un ostacolo verso la ricostruzione di un comune idioma nazionale (a cui, com’è noto, non aveva pensato invece Theodor Herzl, secondo cui “der Judenstaat” avrebbe dovuto essere plurilinguistico), e gli Italkìm non dovevano avere come modello Dante, ma piuttosto Ben Yehuda e Bialik. Per alcuni ebrei marxisti, invece, Dante sarebbe diventato un pensatore ‘borghese’, a cui guardare con sufficienza, quando non, addirittura, con scherno: Vittorio Sereni, futuro dirigente del Partito Comunista Italiano e fratello di Enzo, nel 1921, lo avrebbe definito uno “scrittore minore” del Trecento, “di cui ci restano alcune opere abbastanza buone, come la Divina Commedia, romanzo di avventure”. Un giudizio assurdo, certo, ma, aggiungo io, che non sorprende, se contestualizzato nella obnubilante ortodossia comunista del tempo: lo stesso Emilio Sereni, laureato in agraria a Portici (perché era stato, in origine, sionista, e aveva programmato di trasferirsi in Palestina, insieme a Enzo, ove avrebbe applicato le tecniche agricole apprese all’Università), scrisse una Storia agraria di Roma in cui le categorie marxiste ottocentesche della lotta di classe sono sistematicamente e monotonamente adoperate per lo studio della realtà sociale romana, con un totale e assoluto anacronismo.
D’altronde, la premessa di Federico Engels all’edizione italiana del Manifesto del Partito Comunista, pubblicata a Londra nel 1893, si chiudeva con le seguenti parole: “Il Manifesto rende piena giustizia all’azione rivoluzionaria che il capitalismo ebbe nel passato. La prima nazione capitalista è stata l’Italia. Il chiudersi del medioevo feudale, l’aprirsi all’era capitalista moderna sono contrassegnati da una figura colossale; è quella di un italiano, il Dante, al tempo stesso l’ultimo poeta del Medo Evo e il primo poeta moderno. Oggidì, come nel 1300, una nuova era storica si affaccia. L’Italia ci darà essa il nuovo Dante, che segni l’ora della nascita di questa nuova era proletaria?”. Dante era un ‘colosso’, ma da abbattere, come tutte le colonne portanti del morituro ‘capitalismo’.
Dopo la Prima Guerra mondiale, e, soprattutto, dopo la Shoah e l’Indipendenza di Israele, però, nota ancora Salah, “per gli ebrei sarà in Israele e non in Italia dove le discussioni su Dante saranno le più accese, legate all’identità secolare o religiosa della nuova letteratura in ‘ivrit’ e alla possibilità o meno di dar forma letteraria all’indescrivibile della Shoah”. Questa osservazione mi pare di particolare importanza, in quanto rimanda a quello che è stato il vero prodigio della lingua dantesca, ossia la capacità di sprigionare dalla parola umana dei messaggi di sovrumana potenza, tali da travalicare e travolgere le consolidate, secolari relazioni tra significante e significato.
Se il “popolo del Libro” ha costruito la sua millenaria, complessa identità attraverso la custodia e la trasmissione delle lettere, e la diuturna, febbrile e sofferta interrogazione sul loro senso, Dante ha moltiplicato in modo misterioso e ancora inintelligibile gli orizzonti di questo possibile senso. Come potrebbe l’ebraismo, dopo l’esperienza dell’indicibile, prescindere da questo scrigno magico (o stregato), tanto prezioso quanto inquietante?
L’esempio di Primo Levi, su questo, è particolarmente eloquente. Mi riservo di parlarne la prossima settimana e, forse, anche la successiva.

Francesco Lucrezi

(12 maggio 2021)