Tre uomini in travaglio
Stavamo raccontando, mercoledì scorso, come Primo Levi, nel capitolo Il Canto di Ulisse del suo libro di memorie Se questo è un uomo, scelga di utilizzare la rara occasione di un’ora di affievolito controllo, da parte dei suoi aguzzini, per spiegare a un suo compagno di prigionia, l’alsaziano Jean, detto Pikolo, il significato del XXVI Canto dell’Inferno, traducendone in francese i versi che riesce a ricordare a memoria.
Ma misi me per l’alto mare aperto…
“‘Misi me’ non è ‘je me mis’, è molto più forte e audace, è un vincolo infranto, è scagliare sé stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso”.
“Quale impulso? – si chiede Massimo Giuliani – Quello di guardare dentro l’abisso del male che l’uomo fa all’uomo? O quello di fuggire questo sguardo, di fuggire la stessa occasione, gettandosi magari sul filo elettrificato, per trovarvi una morte istantanea e liberatrice?”. Si tratta di una domanda, ovviamente, a cui non è possibile dare risposta, così come non è dato sapere se fu questo medesimo interrogativo che avrebbe indotto poi Levi a vedere, l’11 aprile 1987, in una tromba delle scale, la stessa via di uscita che gli si era prospettata, quarantatré anni prima, sotto le sembianze di un filo elettrificato.
Non lo sapremo mai, ed è giusto così, neanche Levi lo ha mai saputo, così come l’Ulisse di Omero non ha mai capito quale vendetta divina fosse celata dietro le forze della natura che lo tormentavano, e l’Ulisse di Dante non potrà mai comprendere perché, nonostante il suo coraggio e la sua fedeltà ad Agamennone, Itaca e Penelope, sia condannato a bruciare, avvinghiato a Diomede, per l’eternità.
“Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono”.
Pikolo lo prega di ripetere, di spiegare. Forse, annota Primo, lo fa per bontà d’animo, perché ha capito che quel racconto terribile aiuta il suo compagno. Ma forse no: “forse, è qualcosa di più, forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie”.
Quando m’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi altra tanta
che mai veduta non ne avevo alcuna.
Un miraggio, come ben sappiamo, che si trasforma subito in una nera voragine:
Tre volte il fé gira con tutte l’acque,
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, come altrui piacque…
Levi scrive di avere avvertito dentro di sé l’imperativo, “assolutamente necessario e urgente”, di capire e di fare capire cosa significhi questo “altrui piacque”: “prima che sia troppo tardi, domani io o lui possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medio Evo. Del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…”.
Ma l’ora d’aria è finita, non c’è più tempo, resta solo la possibilità di recitare l’ultimo verso:
Infin che il mar fu sopra noi richiuso.
L’Ulisse di Omero, com’è noto, si salva, quello di Dante è perduto, così come quello di Levi. Ma i tre narratori – Omero, Dante, Levi – sono anch’essi stati tre Ulisse, “uomini in travaglio”, come tutti gli uomini. Qual è stata la loro sorte? Cosa “piacque altrui” per loro? Mille libri ci hanno raccontato di un poeta cieco che raccontava di uomini affannati, sbattuti dal volere di dèi crudeli, di un poeta teologo che sarebbe riuscito a salvare sé stesso e tutta l’umanità, tornando, dopo avere visitato l’inferno, a “riveder le stelle”, di un chimico torinese che ha osato sfidare, con la sola forza della sua parola e testimonianza, il male assoluto. Ma io credo invece che Primo Levi, come “ultimo Ulisse”, riveli il destino di tutti gli Ulisse, di ogni luogo e ogni tempo della storia. E lo riveli nel senso di ri-velarlo, nuovamente nasconderlo. Nessuno saprà mai cosa faccia richiudere il mare sopra di noi, nessuno potrà mai capire cosa, riguardo a noi uomini, piacerà “altrui”.
Com’è noto, Levi vide in Auschwitz la prova teologica della non esistenza di Dio: “c’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio”. E molto è stato scritto, da tanti testimoni, a partire da Elie Wiesel, sul “silenzio di Dio” nel Lager. Ma in questa pagina, come abbiano visto, non si parla di silenzio di Dio. Anzi: “come la voce di Dio”. Ma il messaggio affidato a quella voce, a quello “squillo di tromba”, è sigillato sotto quel “mare richiuso”, o nel fondo di quella tromba di scale.
Francesco Lucrezi
(2 giugno 2021)