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Spigolatura dantesca (2)

Seconda spigolatura dantesca ferragostana, senza escursione vacanziera questa settimana.
Quante volte abbiamo ripetuto i versi dell’epigrafe di Se questo è un uomo consapevoli che intreccino Deuteronomio e i Salmi, in una parodia sacra della prima affermazione del monoteismo (Ascolta, Israele!). Tutti sappiamo sono la secolarizzazione di una preghiera finalizzata alla tutela della memoria nel passaggio dai padri ai figli. La persistenza di elementi danteschi in quei versi è altrettanto nota: essa trae ispirazione dagli appelli al lettore tipici della Commedia, a partire da quell’imperativo «Considerate se questo è un uomo», che prelude al Canto di Ulisse richiamato a memoria nell’episodio di Pikolo: «Considerate la vostra semenza, fatti non foste a viver come bruti…». Nessuno fino ad oggi di un secondo calco dantesco.
«Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case…» prepara il terreno al «Considerate …». Levi cuce insieme i due punti più alti dell’umanesimo dantesco: dall’Inferno risaliamo al Purgatorio, canto XVI, quello degli iracondi, dove rileggiamo le parole di Marco Lombardo: «Voi che vivete ogne cagion recate/pur suso al cielo, pur come se tutto/movesse seco di necessitate» (vv. 67 ss.).
Quelle terzine sono state fondamentali per Levi prigioniero in Lager almeno quanto il «fatti non foste a viver come bruti». Il Voi che vivete di Marco Lombardo è un richiamo collettivo al genere umano: ribadisce la responsabilità umana nella colpa, la difesa del libero arbitrio di contro a ogni disegno provvidenzialistico: «Se così fosse, in voi fora distrutto/ libero arbitrio, e non fora giustizia/ per ben letizia, e per male aver lutto». Voi che vivete attribuite ogni cosa solamente al cielo. Se così fosse non esisterebbe il libero arbitrio e non sarebbe un elemento di giustizia il fatto di ricevere un premio per il bene o una punizione per il male. Il lettore di Se questo è un uomo sa quanto questo appello alla coscienza accompagnerà Levi per tutta la vita costruendo un argine contro la barbarie di Auschwitz.

Alberto Cavaglion