Storie di Libia
Jasmine Mimun Hassan / 3
Terza puntata dell’intervista a Jasmine Mimun Hassan.
Riprendiamo dagli animi della comunità araba esacerbati dalla propaganda fatta dal nuovo governo libero, che scatenò una Rivoluzione durante la quale fu deposto il precedente esecutivo, giudicato corrotto, per instaurarne uno provvisorio di tipo militare. Questa volta gli ebrei si illusero che gli arabi si rivoltassero solo contro gli ex governanti e i loro collaboratori e li lasciassero in pace. Ma purtroppo non fu così, l’odio non svanì mai.
Giulio era stato accompagnato a casa dopo qualche ora, dopo aver rischiato il linciaggio. La loro casa era ridotta in uno stato pietoso, la porta spaccata, i mobili ammassati come una barricata. Per scongiurare un possibile ulteriore attacco, la polizia mise due piantoni davanti alla loro porta. Dopo circa due giorni la notte tra il 10 e l’11 settembre, erano circa le 23 e vigeva il coprifuoco, sentirono un auto fermarsi sotto il loro portone, e videro un Maggiolino rosso, dalla quale scesero due uomini che bussarono. Naturalmente non si mossero ma un loro vicino scese e dopo poco risalì, riferendogli che cercavano Giulio Hassan. Non potendo rifiutarsi scese, lei lo vide entrare nella macchina e poi non seppe più niente per più di una settimana. Furono giorni tremendi, non solo perché non aveva nessuna notizia del marito, ma anche per i continui spari che si sentivano arrivare e facevano temere il peggio. Ricevette la visita di Maria Pia Habib, moglie del loro amico avvocato Simone Habib, che oltre a portarle tutto l’occorrente per le benedizioni di Rosh Hashanah che cadeva proprio la sera del 12 settembre, le portò un messaggio di due fratelli ex compagni di scuola di Jasmine, Rino e William Nemni, che le offrivano di andare a stare da loro. All’inizio rifiutò, pensando che se il marito fosse tornato a casa non l’avrebbe trovata, ma siccome i due piantoni, sapendola sola, avevano iniziato a prendersi delle confidenze, decise di accettare la loro l’ospitalità e si trasferì da loro con i bambini, pensando di trattenersi pochi giorni. Dopo circa una settimana arrivò trafelata l’amica Floriana Orsi per avvertirla che Giulio, non trovandola a casa per telefono, aveva chiamato il suo amico Omero Orsi, avvertendolo che era vivo ed in prigione. Immediatamente Jasmine si attivò per poter parlare con la polizia militare: le risposero che suo marito stava bene, che avevano pensato di trattenerlo per proteggerlo e che su di lui non c’era nessuno tipo di accusa e che presto sarebbe stato rilasciato. Essendoci un governo nuovo, era complicato trovare qualcuno con cui parlare e decidere il da farsi. Quindi si recò direttamente al quartier generale dove incontrò prima delle guardie che sentendo la sua richiesta avevano esclamato “ah, l’ebreo, no non c’è niente contro di lui, è solo per proteggerlo” e poi lo stesso ufficiale al quale il giorno dell’attacco della folla aveva permesso di entrare in casa: egli le confermò quanto detto dalla polizia militare. Ma i giorni passavano, telefonava senza avere risposta alla sede del Consiglio della Rivoluzione, ma del marito non sapeva nulla.
Quando venne a sapere che erano cominciate le visite ai prigionieri, si recò alla prigione di Bab ben Ghashir per avere il permesso di visitare Giulio, e solo dopo molti tentativi riuscì ad incontrarlo, per pochi minuti, con due guardie armate coi fucili puntati verso di loro e con l’obbligo di parlare solo in arabo, cosa per loro molto difficile. Era sempre molto difficile avere il permesso di visitarlo. Vi si recava sempre con i due bambini, Joseph di due anni e mezzo e Deborah di otto mesi.
Giulio era rinchiuso nella prigione politica, insieme a tutti i capi ed ex ministri del governo di Re Idriss.
Un giorno Jasmine incontrò un loro amico libico, il quale le diede il nome del responsabile che si occupava dei prigionieri politici, il maggiore Abd El Munam El Huni, capo della polizia segreta e le disse dove aveva il quartier generale, una villetta in Sciara Ben Ashur. Jasmine scrisse una breve lettera in arabo, chiedendo al Maggiore di essere ricevuta, firmandosi Mimun e non Hassan, e quando si recò alla sede al segretario disse che aveva una lettera personale per il Maggiore, il quale la ricevette. Non conoscendo molto l’arabo, un pò in arabo e un pò in inglese cercò di spiegare all’ufficiale la sua situazione. Una volta saputo chi fosse il marito le disse che conosceva il caso e che Giulio era stato trattenuto allo scopo preventivo di protezione, che non era stato accusato di nulla, e che a breve sarebbe stato rilasciato e lei aveva il permesso di andarlo a trovare. Una volta, dopo che per più di un mese le impedirono di vedere il marito e non ne capiva il motivo, si recò di nuovo da El Huni, che le disse di riferire al responsabile della prigione che lei aveva la sua autorizzazione per visitare il marito. Il responsabile però rispose ironicamente che non sapeva chi fosse il Maggiore El Huni, quindi lei tornò da El Huni riferendogli il fatto. Questi si infuriò e si recò alla prigione ingiungendole di seguirlo.
Quando ne uscì ebbe il permesso di visitare il marito, non prima di essere stata minacciata dal responsabile della prigione di non rivolgersi mai più a El Huni, altrimenti sarebbero stati guai. Quando vide Giulio capì che era stato tenuto per più di un mese in cella d’isolamento a pane ed acqua, per aver cercato di mandarle una lettera, dopo essere caduto in una trappola che gli avevano teso, consegnandola ad un soldato che lo aveva abbindolato facendogli credere di essere un suo amico. Questi si era offerto di portare una lettera alla moglie in cambio di una bottiglia di whisky che lei avrebbe dovuto dargli, ma la lettera era stata trascritta e come la vide lei capì che non era la scrittura di Giulio e si rifiutò di riceverla dicendo al soldato di riferire al marito che non voleva ricevere lettere da lui, e di proposito non fece avere al marito quelle cose che eran scritte nella lettera. Ma per il fatto che lui aveva scritto una lettera lo avevano punito in cella d’isolamento.
Ella continuò a cercare un modo per far liberare il marito, andò a bussare a molte porte di responsabili, ministri, ufficiali per trovare una via d’uscita. Dal Comando del Consiglio della Rivoluzione le venne detto che era compito della Procura Generale, mentre alla Procura le veniva detto che non potevano iniziare un’inchiesta senza l’ordine del CCR. Era chiaro che il vero motivo fosse il suo essere ebreo. Ormai poter vedere il marito era un’impresa, ma non perse le speranze. A giugno i fratelli Nemni che continuavano ad ospitarla, essendo sudditi britannici, ebbero il permesso di lasciare il paese. Fortunatamente si era liberato l’appartamento dei suoi genitori in Sciara Jakarta 20, quello con la porta blindata, in una palazzina abitata tutta da italiani e vi si trasferì con i suoi due bambini. Però nell’agosto del 1970 furono espulsi dalla Libia anche gli Italiani, quindi rimase sola in un paese di soli arabi. Come se non bastasse scoppiò anche un’epidemia di colera: fecero tutti il vaccino, che li fece stare molto male.
Nel frattempo aveva smesso di recarsi dal Maggiore El Huni, dopo che il suo segretario le aveva detto, ad aprile: “Noi ti vogliamo tanto aiutare ma anche tu devi aiutare noi, tu che conosci tante persone ebree e italiane, puoi riferirci cosa dicono e fanno e noi ti aiuteremo”. Ma lei aveva risposto che, da quando suo marito era stato arrestato, tutti avevano paura e nessuno parlava più davanti a lei. Però capì che quel canale era chiuso. Tuttavia, verso fine agosto decise di rivolgersi di nuovo ad El Huni per chiedere cosa ne fosse del marito e quando sarebbe stato liberato. Lui le propose di partire dalla Libia, e che a breve avrebbero fatto liberare anche suo marito e messo su un aereo. Invece del suo passaporto libico, valido cinque anni, ricevette un titolo di viaggio con validità di tre mesi, il travel document e con quello partì per Roma, dove si trovavano i genitori e i suoceri. Alla scadenza del visto, che al Consolato Libico a Roma si rifiutarono di rinnovare, i suoi genitori non vollero farla ripartire per Tripoli. Ritrovandosi in Italia solo col permesso di soggiorno, senza neanche più la cittadinanza libica, era bloccata, non poteva più lasciare l’Italia e viaggiare. Ma questi ostacoli non le impedirono di perorare la causa del coniuge. Iniziò a scrivere lettere a tutti, in arabo, in inglese, al Comando del Consiglio della Rivoluzione di Tripoli, ai responsabili del Ministero degli Esteri italiano, alla Croce rossa, all’Onu, ma nessuno potè far nulla. La risposta dei libici era che trattandosi di cittadino libico nessuno aveva il diritto di intervenire.
Dopo vari tentativi e l’affidamento a due avvocati, la famiglia di Giulio, verso la fine del 1972, diede l’incarico ad un avvocato libico che era stato in prigione con lui, Mahmoud Nafa, che in quei mesi riuscì a fargli avere vestiti, un pò di soldi, anche se personalmente non riuscì ad incontrarlo. In seguito, nel 1974/75, l’avvocato Nafa fu fatto assassinare a Londra da Gheddafi.
Jasmine lottò per più di tre anni per far liberare suo marito. Le fu presentato un famoso avvocato di Parigi che la fece incontrare col capo dell’Associazione d’amicizia Franco/Libica, che si occupava anche di aiutare i palestinesi e i cui quartieri ospitavano anche l’OLP. In cambio di aiuti economici che erano già stati decisi dal governo francese per aiutare i palestinesi, questi si sarebbero dovuti impegnare a far liberare Giulio. Ma la persona che doveva occuparsi della cosa, il giorno stesso della partenza per Tripoli, ricevette una telefonata, e come alzò la cornetta, scoppiò una bomba che l’uccise. Si scoprì che colui era stato uno degli organizzatori dell’attentato agli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco e la sua uccisione era opera della vendetta di Israele.
Jasmine tentò quindi altre strade, invano; infine le fu presentato dall’amico Giuseppe Spizzichino il console del Marocco, che le diede un’informazione molto riservata e cioè che il Ministro degli Esteri tunisino, Mohammed Masmoudi, stava preparando l’unione fra Libia e Tunisia e sarebbe stato lui la persona più adatta per intervenire presso Gheddafi. Le suggerì di recarsi a Tunisi ed incontrarne la moglie che si trovava ogni venerdì mattina dalla parrucchiera dell’Hotel Hilton. Masmoudi amava la moglie ed ascoltava tutto ciò che gli diceva. Jasmine era pronta a partire immediatamente per Tunisi ma il suo avvocato a Parigi glielo sconsigliava, non ritenendo che fosse giusto recarsi così da una parrucchiera ad incontrare la moglie di un ministro. Dopo tante insistenze però, attraverso varie conoscenze, egli riuscì a fissare un appuntamento con il Ministro della Pubblica Istruzione Driss Guiga, a casa sua ad Hammamet, in Tunisia. Jasmine aveva ricevuto nel frattempo un titolo di viaggio italiano che però richiedeva un visto per entrare in Tunisia, mentre il passaporto italiano ne era esente. Arrivò in Tunisia senza visto, che però gentilmente e dopo tante insistenze le fu concesso all’aeroporto, per tre giorni. Arrivò il 29 giugno 1973.
All’aeroporto incontrò il suo avvocato, venuto da Parigi, e l’indomani furono ricevuti calorosamente in casa loro dal Ministro Driss Guiga e dalla moglie Shasha, donna esuberante ed espansiva, pittrice. Appena sentita la storia dell’assurda prigionia di Giulio ambedue esclamarono che chi avrebbe potuto aiutare sarebbe stato sicuramente il ministro Masmoudi, che però in quel momento si trovava fuori dal paese. Jasmine dovette ripartire prima che il Ministro Masmoudi tornasse in patria dato che le scadeva il visto, ma le fu promesso che le avrebbero fissato un appuntamento appena possibile.
Per un motivo o per l’ altro questo appuntamento non fu mai fissato, lei nel frattempo aveva chiesto un visto al Consolato tunisino a Roma , la cui validità scadeva il 6 novembre 1973. Nel frattempo il suo avvocato riuscì a fissare l’appuntamento con l’ambasciatore della Lega Araba a Parigi il 5 ottobre. Jasmine si recò a Parigi per questo appuntamento e l’ambasciatore promise che avrebbe cercato di intervenire presso il governo libico e diede loro appuntamento per lunedì 8 ottobre, appuntamento che non ebbe mai luogo perché l’indomani, il 6 ottobre, scoppiò la guerra di Kippur ed anche questo tentativo andò in fumo.
Il visto per la Tunisia le scadeva il 6 novembre e Jasmine decise che avrebbe rischiato e partì per Tunisi proprio il 6 novembre.
Finalmente, con l’aiuto del Ministro Guiga e della moglie Shasha, riuscì ad incontrare il Ministro degli Esteri tunisino Mohammed Masmoudi, al quale raccontò di suo marito rinchiuso da più di quattro anni in carcere, come prigioniero politico, senza nessun capo di accusa. Masmoudi rimase allibito sentendo il racconto, perché conoscendo Gheddafi sapeva che non si comportava così. L’ indomani partì per la Libia con la promessa che avrebbe risolto la situazione. Speranzosi attesero risposte positive. Al suo ritorno egli riferì a Jasmine dell’imbarazzo del governo libico per avere detenuto suo marito innocente e che forse, se lei fosse tornata in Libia, avrebbero avuto la scusa per rilasciarlo. Jasmine aveva timore di ritornare e aveva anche il Travel Document libico scaduto, ma grazie all’intervento del ministro glielo rinnovarono e lei riuscì a partire per Tripoli, con la promessa che il marito sarebbe stato subito liberato. Parti il 26 novembre 1973. Il caso volle che l’aeroporto fosse chiuso perché era stato dirottato un aereo; perciò vennero fatti atterrare a quello che era stato l’aeroporto militare Wheelus Field. Come benvenuto, le sequestrarono tutto ciò che aveva: libri e riviste comprese. Sapeva anche che sarebbe stata seguita in tutti i suoi movimenti. Si stabilì all’hotel Uaddan dove soggiornava anche il Ministro Masmoudi durante le sue visite a Tripoli ed ebbe la protezione dell’Ambasciatore tunisino Amor Fezzani e del governo tunisino. Le fu fissato un appuntamento con il Ministro degli Interni libico, El Khueldi Hamidi, il quale le diede il permesso di andare a trovare il marito in prigione. Si recò a trovarlo, ma le autorità della prigione non glielo permisero, rimandando all’indomani. Una guerra di logorio dei nervi poi, finalmente, riuscì ad incontrarlo. Non appena la vide, Giulio arrabbiatissimo le disse: “Cosa sei venuta a fare qui, vai via perché sei qui, torna a casa!”.
Egli temeva per la sua incolumità. Passò ancora del tempo e Giulio non venne rilasciato. Per ingannare il tempo, Jasmine camminava per la città notando come fosse totalmente cambiata con tutte le insegne in arabo, sembrava addirittura più piccola di quello che ricordava. Durante la sua permanenza a Tripoli, ella continuò a percorrere tutte le strade che la potessero aiutare, finché un giorno non le venne un’ispirazione che giudica divina. Si recò dal Ministro Libico El Khueldi, che incontrava quasi ogni due giorni, era lunedì e gli disse: “Lo so che mi vorrebbe aiutare e che ha fatto di tutto purtroppo senza riuscirci: mi dica chi è il responsabile, e se fosse anche il colonnello Gheddafi farò in modo di andarci”. Queste sue parole colpirono molto l’uomo il quale le disse: “Lo farò io questo per te, torna domani”. Così la donna tornò l’indomani e lui le disse di riferire al marito che alla fine della settimana sarebbe stato libero. Jasmine rispose che non voleva dirglielo per non dargli false speranze dopo anni di carcere ma lui le diede la sua parola. Poi le mise a disposizione un’auto con autista e il numero di una persona che l’avrebbe aiutata e accompagnata ovunque dovesse andare. Il giovedì decise di andare a trovare Giulio e chiamò questa persona per farsi venire a prendere, costui però non l’accompagnò alla prigione ma alla sede della polizia segreta, dove in una stanza trovò suo marito felice di rivederla e lui le disse che dopo qualche giorno lo avrebbero liberato, che in fin dei conti a Tripoli si stava bene, e che avrebbero potuto far venire anche i bambini. Sentendogli dire quelle frasi pensò che fosse impazzito, ma poi lui pronunciò una sorta di parola d’ordine che si erano inventati da usare in caso di pericolo, o per far capire di stare attenti a ciò che si dice così lei capì che erano spiati. Quindi fece finta di essere d’accordo e che dopotutto non fosse una cattiva idea stare a Tripoli. Dopo due giorni, ormai arrabbiatissima per le tante promesse fatte e mai mantenute, si recò a trovare Giulio e lo trovò fuori dalla prigione con una valigia. Era il 22 dicembre 1973. Si può solo lontanamente immaginare la felicità provata da entrambi. Essendo stato rinchiuso per anni, desiderava uscire, camminare, andare al ristorante, insomma vivere, ma il rischio sarebbe stato quello di mettersi troppo in mostra, e l’avvocato Nafa, che erano andati a trovare, gli disse che non dovevano dare troppo nell’occhio, perché così come lo avevano liberato, lo potevano anche rimettere dentro. Decisero di lasciare al più presto la Libia. All’ufficio passaporti per richiedere il visto d’uscita ebbero delle difficoltà, così Giulio si rivolse al capo della Polizia Segreta, un certo Ghazali, che nei primi tempi era stato suo compagno di cella, il quale fece loro avere i visti, minacciandoli però che se avessero fatto propaganda di quanto accaduto a Giulio e della sua prigionia avrebbero trovato il modo di colpire loro e le loro famiglie in qualsiasi parte del mondo .
L’indomani del suo rilascio erano andati a trovare il Ministro El Khueldi per ringraziarlo ed egli aveva chiesto di vederli nel suo ufficio governativo prima della partenza. Così, prima di lasciare Tripoli, si recarono nell’ufficio del Ministro, il quale diede loro dei regalini per i bambini e presentò a Giulio le scuse ufficiali da parte del governo libico per averlo “dimenticato” in prigione. (Quattro anni, tre mesi, dodici giorni). Lasciarono definitivamente la Libia il 26 dicembre del 1973, passando per Tunisi per ringraziare tutti coloro che li avevano aiutati. Il 12 gennaio 1974 vennero firmati accordi per l’unione fra Libia e Tunisia, ed in seguito a un referendum due giorni dopo furono annullati. Il Ministro Masmoudi fuggì dalla Tunisia. Giusto in tempo!
La vita fu dura a causa dei traumi subiti ma non si sono mai scoraggiati. Ciò che ha imparato dalle sue esperienze è l’insegnamento che sarebbe bello trasmettere alle future generazioni un messaggio di incoraggiamento, che non bisogna mai arrendersi, ma bisogna affrontare ogni avversità con coraggio e a testa alta, avendo sempre fede nel Signore, e raccontare sempre la verità, anche quando le esperienze sono negative, perché anche esse fanno sempre parte della propria esperienza di vita personale.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(15 febbraio 2022)