Diritto d’autore

Nella scorsa puntata abbiamo affrontato la questione della pubblicazione, in bella vista, in epigrafe sulla copertina di tutti i numeri del periodico fascista e nazistoide “La difesa della razza”, di due coppie di versi danteschi, la prima (Par. XVI. 67-68) apparsa solo sul primo numero, uscito in edicola il 5 agosto 1938, e la seconda (Par. V. 80-81) su tutti gli altri. E abbiamo annunciato che ci saremmo soffermati su una analisi di entrambe le espressioni, per potere così ragionare, in modo più consapevole, sulla utilizzazione e manipolazione del pensiero del poeta da parte dei redattori di quei fogli abominevoli.
Prima di procedere in questa disamina, però, ci pare opportuno riprendere e meglio precisare un concetto che abbiamo già formulato all’inizio di questa ricognizione sul tema “Dante e gli ebrei”. Chiarimmo, infatti, che tale locuzione comprende tre terreni di indagine, che vanno nettamente distinti gli uni dagli altri. Essi sono: il modo in cui il poeta tratta, nella Commedia e altrove, degli ebrei e dell’ebraismo; il modo in cui gli ebrei, e in particolare quelli italiani, nelle varie epoche, si sono confrontati col pensiero e la poesia di Dante; il modo in cui alcuni versi danteschi sono stati utilizzati, nel tempo, per dare fondamento o giustificazione ad alcuni atteggiamenti, benevoli o – più spesso – malevoli, nei confronti degli ebrei.
La questione che stiamo ora trattando si colloca, evidentemente, all’interno del terzo terreno. Ed è importante chiarire, a questo proposito, un punto fondamentale, ossia quello che possiamo definire della vita autonoma delle parole, delle immagini e delle azioni rispetto ai loro autori.
La seconda delle due coppie di versi scelti da La difesa della razza (“uomini siate” ecc.) deve necessariamente rientrare in uno studio su “Dante e gli ebrei”, in quanto in essa si parla esplicitamente, appunto, degli ebrei (“sì che il giudeo” ecc.). Ma, nella prima (“sempre la confusione delle persone” ecc.) agli ebrei non viene riservata neanche la più lontana allusione, così come in tutto il Canto dove essa è inserita. Quando Dante scriveva quei versi, pensava a tutto, tranne che gli ebrei. E allora? Perché parlarne?
Occorre parlarne, appunto, per la vita autonoma delle parole, che, una volta pronunciate o scritte, non appartengono più solo al loro autore. Dante, chiedemmo la volta scorsa, avrebbe concesso al quindicinale il copyright per l’uso de suoi versi?
La domanda, ovviamente, è paradossale, ma non priva di senso. Tuti sanno che il diritto d’autore esiste solo in determinate circostanze, e per una durata temporale limitata. La difesa della razza non avrebbe certo dovuto chiedere permesso agli eredi di Dante per citare i suoi versi. E, comunque, non esiste, a nessun livello, un diritto d’autore sul senso e sull’interpretazione delle parole, delle immagini, delle azioni.
Tutte le parole, tutte le immagini, così come tutte le azioni messe in essere dagli uomini, da Adamo in poi, vanno incontro a due distinti destini. O cadono nell’oblio (e ciò accade nella stragrande maggioranza dei casi), e allora nulla quaestio, oppure vengono raccolte, ricordate, tramandate e risignificate da altri uomini, per una durata, nel tempo e nello spazio, varia. Un gesto, un testo, un disegno può essere ricordato per qualche minuto o qualche ora, magari solo da chi l’ha realizzato, o da un altro paio di persone, oppure da larghissime masse di soggetti, per millenni. È questo, ovviamente, il caso della Commedia. E, quando il gesto o l’opera va in mani altrui, vive ormai di vita autonoma.
C’è un noto episodio, narrato da Boccaccio, in cui il sommo poeta mostra di non condividere questo concetto. Udendo un fabbro che recitava i suoi versi (a suo giudizio, in modo approssimativo), si sarebbe messo a rompere i suoi attrezzi. E, alle proteste del malcapitato, avrebbe risposto: “tu fai a pezzi i miei versi, e io i tuoi attrezzi”. Dante non ci fa una bella figura, ma sappiamo che il nostro non aveva un dolce carattere.
Ora, la vita autonoma delle parole, delle immagini e azioni, dopo il tempo in cui sono state mese in essere, fa parte integrante, piaccia o non piaccia, della loro storia. Sarebbe sbagliato e, soprattutto, impossibile, non tenerne conto.
Ci si può chiedere (a livello, forse, di gioco, ma non soltanto), che reazione avrebbero avuto, i vari autori dei gesti, delle parole, delle immagini, se avessero potuto venire a conoscenza della loro futura risignificazione, degli esiti di questa successiva “vita autonoma”.
Sarebbe stato contento, per esempio, Virgilio, di essere eletto, nella Commedia, a guida di Dante? Immaginiamo di sì, ma chi sa.
Sarebbe stato contento, Leonardo, di vedere la sua Gioconda arricchita, da Duchamp, di un paio di baffi? Chi sa, non conosciamo abbastanza il suo senso dell’umorismo.
Sarebbe stato contento, Napoleone, di essere stato convertito, in limine mortis, nel 5 maggio di Manzoni? Io penso di no, ma chi sa.
Eccetera eccetera. In ogni caso, si devono rassegnare. Le loro azioni, le loro parole e +immagini non appartengono più a loro.
E possiamo immaginare cosa avrebbe detto, Dante, dell’operazione fatta, con i suoi versi, da La difesa della razza?
In questo caso, non si può dire “chi sa”. Siamo certi che il poeta si sarebbe rivoltato nella tomba, avrebbe fatto ben di peggio che – sull’esempio del fabbro – rompere solo le macchine da scrivere di Interlandi e Almirante.
Spiegherò, nella prossima puntata, i motivi di questa mia convinzione.

Francesco Lucrezi

(2 marzo 2022)