L’intervista a Massimo Popolizio
“M, l’Italia manipolata dal potere”

Il ghigno di un Italo Balbo che si arruola tra le squadracce fasciste per denaro e si diverte nel distribuire violenza. I modi eleganti di Margherita Sarfatti, donna di cultura e fascino che apre le porte delle élite a Mussolini per poi esserne usata e abbandonata. Il voltafaccia di Nicola Bombacci, prima simbolo socialista, vate della rivoluzione e poi, svanito il sogno proletario, fascista. L’umanità di Giacomo Matteotti, senza la patina stantia dell’eroe, innamorato, a tratti goffo, ma sinceramente impegnato a combattere per i diritti dei suoi concittadini, dei suoi conterranei. E poi i due Mussolini, il teatrante da avanspettacolo che imbonisce il pubblico italiano e il reietto che gradualmente si fa strada e sale fino in cima alla scala del potere.
Sono alcuni dei personaggi che si alternano in scena in “M. Figlio del secolo”. Tre ore di spettacolo con cui Massimo Popolizio, regista e interprete del Mussolini teatrante, porta in scena il libro premio Strega 2019 di Antonio Scurati. Trentuno quadri scenici con diciotto attori che interpretano ottanta personaggi, che si alternano su scenografie essenziali quanto d’effetto. Sul palco si racconta l’ascesa di Mussolini (quello borghese interpretato da Tommaso Ragno), dalla fondazione dei fasci di combattimento, passando per la Marcia su Roma, fino al discorso in Parlamento del 3 gennaio 1925 e al dilagare dello squadrismo. “Il mio obiettivo non era fare un bignami delle 800 pagine di Antonio né fare una puntata di Rai Storia. Ma prendermi dei rischi e mettere in scena un’allegoria del potere, dove l’Italia viene rappresentata come una sorta di laboratorio di un disastro futuro. E soprattutto non volevo che il pubblico uscisse dal teatro indifferente”, racconta a Pagine Ebraiche Popolizio, apprestandosi a portare a Roma il suo M (in scena al Teatro Argentina fino ai primi di aprile).
Al Piccolo Teatro di Milano, che ha coprodotto la pièce assieme al Teatro di Roma e Luce Cinecittà, per un mese il pubblico ha riempito la sala. Una presenza costante. La miglior risposta all’invito del regista e attore a non rimanere indifferenti a un racconto che parla dell’Italia e degli italiani. Ma non solo.

Ironico. Brechtiano. Cinematografico. Felliniano. Sono alcune delle definizioni che la critica ha dato del suo M. Come ha affrontato la sfida di condensare ottocento pagine di storia in uno spettacolo?
È stato un rischio. Molti degli spettacoli sono interpretazioni di testi già noti: possono venire bene oppure no, ma il testo sai che funziona. Con M no, la riduzione non era mai stata fatta. Per questo dico che era rischioso, una sfida bella e incosciente. E siamo riusciti a realizzare uno spettacolo complesso, ma popolare. La forma “brechtiana” del romanzo poi mi ha permesso di scegliere una chiave grottesca, con momenti di varietà, cori, canzoni. I trentuno quadri sono veloci e dinamici. Non si procede in ordine cronologico, ma per temi: Arditi, Donne, il Teatrante, Elezioni Rosse, Il Cadavere, Matteotti. Gli attori, in questa costante alternanza, devono restituire l’idea di una specie di furore.

I suoi due Mussolini in scena non hanno neppure le fattezze di quello storico, eppure questo non toglie credibilità alla narrazione.
Se guardiamo il bellissimo film del ‘73 di Vancini, Il delitto Matteotti, lì gli attori, che sono il meglio del meglio, facevano di tutto per assomigliare fisicamente ai personaggi storici. La pellicola funziona ed è ancora straordinaria. A teatro non credo che avrebbe fatto lo stesso effetto. Poi io l’ho fatto Mussolini (nel film Sono tornato di Luca Miniero) e so cosa significa caricarsi di tutto un bagaglio di immagini e se vuoi stereotipi. Non volevo metterli in M, anche per dare spazio ad altri significati e riflessioni.

Qual è per lei il cuore di queste riflessioni?
Credo sia una domanda: come fa un movimento guidato da un uomo in soli sei anni anni a conquistare l’Italia? Non dimentichiamo come inizia: con Mussolini che si rivolge agli arditi, che rappresentano la feccia del paese. Sono persone fuori di testa, diecimila mine vaganti che vengono assoldate immediatamente da Mussolini. Poi li abbandona, perché “il piccolo borghese ha bisogno di rassicurazioni”. M è mercuriale, cambia posizione continuamente. La rivoluzione, dice, i socialisti non la faranno mai, perché hanno “l’intoppo dell’etica, la zavorra dei princìpi”. Bisogna essere capaci di cavalcare il malcontento per la conquista del potere.

È una riflessione anche sull’oggi?
In parte, ma quello che mi interessa è che il pubblico non rimanga indifferente, che si ponga lui delle domande. O noi, se vogliamo, intesi come italiani. Chiediamoci come siamo riusciti a farci manipolare dal potere, a cambiare idea molto facilmente. Ci sono alcune frasi del libro a cui tengo particolarmente e cioè quando Mussolini dice che il programma in realtà è solo un pezzo di carta, il fascismo è antipolitica, è un antipartito. È reazionario e rivoluzionario a seconda delle necessità. Parole del passato che riecheggiano nel presente, ma non sono messe nello spettacolo con l’evidenziatore del contemporaneo. Non siamo noi a suggerire allo spettatore il richiamo all’oggi. Ma le domande sono lì: perché ad esempio l’idea dell’uomo forte continua ad avere seguito. Pensiamo a Putin, per dirne uno.

La sensazione è che tra i fili conduttori di M ci sia anche l’ironia, che non vuole trasformare i personaggi in macchiette, ma se possibile renderli ancor più violenti. È così?
Ho sempre detto agli attori, quando montavamo lo spettacolo, che dobbiamo rappresentare qualcosa di estremamente italiano. Non italiota. Non ha nulla a che vedere con lo scherzo. O meglio, lo scherzo c’è, lo sbeffeggiamento, il varietà, ma è usato per raccontare in modo ancor più crudo la violenza fascista. Non alleggerisce. Come nel caso della risata di Italo Balbo, che ride mentre somministra l’olio di ricino sulle note di Bach. Quindi c’è ironia, ma c’è soprattutto violenza, che del resto è l’elemento che caratterizzerà dalle origini il fascismo.

Quest’anno cade l’anniversario della marcia su Roma e possiamo immaginare che i fascisti del terzo millennio cercheranno, nella loro ignoranza, di celebrarla. La sua rappresentazione scenica però ci ricorda un fatto troppo poco ricordato: che fu una discesa per lo più fallimentare, quasi ridicola, con i manifestanti bloccati dalla pioggia.
Ci interessava raccontare quell’episodio ricordando come dei poveracci, la maggior parte senza armi, con rastrelli, zappe, con fucili senza cartucce, erano rimasti impantanati nel fango tra Orte e Tivoli. Dimenticati e imprigionati nella loro fame di bottino dall’acqua. E per questo ho voluto portarla veramente sul palco. Per rappresentarli annegati in questa pioggia, senza ordini, come del resto era accaduto durante la prima guerra mondiale.

M è una rappresentazione di un periodo storico italiano. C’è un altro mondo che vorrebbe raccontare?
Sì e lo spunto mi è venuto guardando la serie Unorthodox sugli ebrei ultraortodossi. Mi piacerebbe mettere in scena Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, ma non sugli italoamericani degli anni ‘50. Mi piacerebbe portarlo indietro agli anni Venti e ricostruire un pezzo di quella storia.

Daniel Reichel, Pagine Ebraiche Marzo 2022