Storie di Libia
Giulio Hassan / 3
Giulio Hassan ricorda come la cosa peggiore della prigionia fosse il tempo che non passava mai. Spesso non sapeva cosa fare, anche se non aveva perso la fede. A quel tempo facevano processi a tutti gli ex membri del governo. Tra di essi c’era un ex ministro berbero che era stato condannato a dieci anni di carcere. Era avanti con l’età e gli ispirava fiducia. Gli parlò sinceramente dicendogli che un uomo della sua età non poteva scontare una pena così lunga, perché sarebbe morto prima. L’uomo lo ascoltò e rispose che non sapeva cosa fare. Allora Giulio gli propose di scappare. Avrebbe pensato lui al piano e l’uomo avrebbe dovuto solo procurarsi della naftalina. Qualcuno infatti gli aveva detto che usare una pallina di naftalina tipo supposta avrebbe procurato una febbre altissima e, se non fosse subentrata una sincope, di sicuro sarebbero stati portati in ospedale. Una volta saliti sulla jeep, avrebbe tramortito le guardie e preso i fucili. Con il mezzo lo avrebbe portato dove il popolo berbero affezionato al ministro lo avrebbero sicuramente accolto. Dal suo canto lui avrebbe dovuto procurargli un mezzo per raggiungere la Tunisia e da lì sarebbe potuto arrivare in Italia. L’uomo fu entusiasta del piano e gli chiese quando lo avrebbero realizzato. Occorreva tempo per organizzare il tutto. Ogni giorno gli chiedeva quando sarebbero scappati.
Un giorno Giulio si svegliò con un terribile mal di denti e chiese di essere portato da un dottore. All’inizio si rifiutarono e per questo litigò con la guardia. Fece chiamare il loro capo, dicendogli che stava malissimo. Entrarono in cella tre guardie, gli misero i ferri alle caviglie e ai polsi. E sistemato così lo portarono fuori per andare in ospedale. Mentre era quasi all’uscita, arrivò l’ufficiale capo che chiese: “Gli avete messo bene le manette? State attenti, eh!”. Usciti dalla prigione, i soldati si scusarono e gli tolsero tutto. Giunti all’ospedale lo incatenarono di nuovo. Giulio si domandò il perché di quel trattamento. Gli risposero che erano dispiaciuti, ma ubbidivano agli ordini perché lui era considerato pericoloso. Così capì che era stato tradito dal suo amico. Una volta tornato in carcere il berbero gli si avvicinò per chiedere quando ci sarebbe stata la fuga. Rispose che aveva cambiato idea e che fosse meglio lasciar perdere. L’atmosfera in prigione era molto triste e rendeva nervosi, anche a causa della continua guerra psicologica esercitata sui prigionieri. Con il suo modo di fare Giulio si era fatto molti amici tra i prigionieri e le guardie. Egli si sentiva di dover rappresentare tutti gli ebrei, pur essendo l’unico ebreo in quel carcere. Cercava di farsi rispettare, imponendo ai musulmani le sue regole religiose. Si rifiutava di fare tutto ciò che non fosse regola religiosa, del tipo che il sabato non poteva lavorare. E nessuno osava contraddirlo, visto che non conoscevano il suo credo. Fece correre la voce che le preghiere di un ebreo venivano sempre esaudite.
Quando una persona veniva scarcerata o riceveva buone notizie, diceva che lui aveva pregato per quella persona, ed era stato esaudito. Così tutti in carcere gli chiesero di pregare per loro. La sua fede lo faceva sentire molto forte, non temeva nessuno. Stava in mezzo a Colonnelli, Generali e Ministri. C’era addirittura il famoso funzionario dell’Ufficio Passaporti che nel 1967 non gli aveva voluto dare il passaporto col visto d’uscita, credendo fosse un generale israeliano. Dalla presa del potere di Gheddafi furono molti i miliziani che tentarono un colpo di stato, e ad ogni fallimento il carcere si riempiva di cospiratori. Le botte erano all’ordine del giorno verso questi prigionieri, e non si sa per quale motivo insieme a loro portavano sempre anche Giulio. Venivano picchiati violentemente, tanto che alcuni avevano anche braccia e gambe rotte. Come se non bastassero tutti quei traumi, un giorno che erano stati brutalmente picchiati arrivò un membro del Consiglio della Rivoluzione, il quale disse ai prigionieri che l’indomani mattina alle nove sarebbero stati tutti giustiziati, e se ne andò. Tutti i carcerati iniziarono a piangere e a disperarsi. Anche lui visse quel dramma, mai dimenticato. Per cercare di rompere quella disperazione propose a tutti di mettersi a raccontare a turno la loro prima volta. I racconti furono molto divertenti tanto che le ore passarono velocemente in mezzo alle risate. L’indomani alle nove non si presentò nessuno.
I suoi amici cercavano di convincerlo a scrivere una lettera a Gheddafi, per convincerlo a scarcerarlo e poter così tornare dalla propria famiglia. Lui non accettava, non voleva certo chiedere elemosine. Lo incoraggiarono e lui scrisse la lettera in italiano che essi tradussero in arabo. Così la consegnò al capo della prigione affinché la potesse fare avere a Gheddafi. L’ufficiale invece di aiutarlo, lo rimproverò dicendogli “con quale faccia” chiedeva di parlare con Gheddafi, dal momento che lui era un generale israeliano e suo padre un traditore. Giulio rispose che erano tutte bugie e che già nel 1967 girava questa chiacchiera. La polizia aveva fatto indagini e scoperto che non era vero. Lui era un ingegnere laureato al Politecnico di Milano, per questo aveva passato tanti anni fuori dal Paese. Ma questi non gli credette affermando che certamente la laurea se la era comprata. Giulio perse la pazienza e si rivolse all’ufficiale dicendogli che non doveva permettersi di parlare così, perché era un ufficiale dell’esercito del suo Paese, lui era un ebreo libico, e disonorava la divisa. Dopo questo fu messo in isolamento per circa 45 giorni. Un giorno arrivò un ufficiale della rivoluzione, lo guardò e gli chiese: “Tu chi sei? Cosa fai qui?”. E lui gli rispose: “Giulio Hassan. Sono un ebreo libico”.
Aveva sentito parlare di lui e si chiedeva perché anche Giulio facesse il digiuno del Ramadan. Rispose che viveva con altri prigionieri musulmani e rispettava la loro religione. Loro digiunavano, lui non mangiava, loro piangevano, e lui piangeva con loro, perché erano tutti uguali. L’ufficiale gli disse: “Ti faccio una proposta, ti faccio uscire e tu ti converti all’Islam”. Naturalmente Giulio non accettò. Qualche giorno dopo fece amicizia con colui che era stato il governatore del Fezzan, un certo Seif El Nasser del quale tutti avevano timore, che come lui non poteva avere contatto con i familiari all’esterno e che lo prese sotto la sua protezione. Lo aveva praticamente adottato e lo chiamava “figlio”. Lui procurava i soldi e Giulio acquistava i prodotti e cucinava per tutt’e due. Egli diceva: “Giulio figlio mio mi porteresti un bicchiere?”, “Giulio figlio mio puoi venire un attimo?” E così via e sempre con gentilezza. Gli disse che d’ora in poi avrebbe dovuto portare il suo cognome, non più Hassan. Se qualcuno aveva qualcosa contro Giulio, dovevano andare a parlare con lui. Ma col tempo, a causa delle chiacchiere degli altri prigionieri invidiosi, l’uomo ne fu influenzato. E così diventò autoritario nel chiedere: Giulio prese dalla tavola tutto il cibo rimasto e i soldi e glieli portò, dicendogli che gli ridava tutto. Gli diede il bicchiere e gli disse che da quel momento in poi ci avrebbe dovuto pensare da solo. Se avesse avuto bisogno di qualcosa, bastava che lo chiedesse con gentilezza. Prima lo chiamava figlio e chiedeva le cose per favore, ma adesso dava solo ordini. E a lui non si potevano dare ordini.
Dopo qualche tempo Seif El Nasser si pentì e cercò di restaurare il vecchio rapporto, ma per Giulio era trascorso troppo tempo. Qualcuno tra i loro amici cercò di fare da paciere ma egli pretendeva le scuse. Si sapeva che l’orgoglio dell’arabo era così forte che di sicuro non lo avrebbe fatto. Quando si misero tutti seduti a bere il tè, Seif El Nasser chiamò Giulio e disse davanti a tutti: “Giulio, io ti chiedo scusa, ho sbagliato”. A quelle parole, Giulio si alzò e lo abbracciò. La loro amicizia durò ancora sei mesi. Purtroppo un giorno l’arabo si sentì male e si rotolò per terra in preda a dolori atroci. Giulio chiamò la guardia per farlo portare in ospedale ma questi non gli credette, pensando che fosse una commedia. In preda alla rabbia lo prese per il bavero e lo trascinò fino al suo amico, per fargli vedere che non era una finzione. Quindi il ministro venne portato in ospedale, ma purtroppo l’indomani morì. Dopo molti anni Giulio incontrò il figlio a Roma, che gli disse che suo padre in realtà era stato assassinato in ospedale.
Rattristato dalla perdita del suo amico raccolse tutte le sue cose, il cibo rimasto, i vestiti, soldi e altre cose, e chiese che fossero portate alla sua famiglia, ma gli riportarono tutto indietro. La famiglia del governatore aveva saputo ciò che lui aveva fatto per il loro caro e gli fece capire che se avesse avuto bisogno di qualsiasi cosa bastava che glielo facessero sapere. Naturalmente Giulio non chiese mai nulla.
Spesso per passare il tempo si giocava a carte. Una volta stava facendo una partita e mentre prendeva una carta, un prigioniero, un egiziano disertore della guerra dei Sei Giorni, gli bloccò la mano, intromettendosi in una partita alla quale non stava partecipando. Allora Giulio scattò in piedi e lo picchiò violentemente. Entrambi furono portati nell’ufficio dell’ufficiale capo, che chiese cosa fosse successo. Giulio spiegò che stava giocando a carte e che l’egiziano era intervenuto e non doveva farlo, perché era spettatore. L’ufficiale disse che di sicuro avevano litigato per motivi politici, di Israele e altro. Giulio negò dicendo che non era vero che avessero litigato per quel motivo. E inoltre un disertore non aveva nessun diritto di parlare visto che non aveva voluto combattere contro Israele. Si trattava di uno straniero, mentre lui era cittadino libico. E se non credevano a lui, potevano chiedere agli altri prigionieri presenti. Giulio era in una situazione disperata, visto che per una banale partita a carte aveva riempito di botte un altro prigioniero. Così, vista la situazione e capendo che potesse andare incontro a problemi più gravi, disse all’ufficiale: “Sai che ti dico, hai proprio ragione, sono un cretino”.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(21 marzo 2022)