Bambole matrioska

Abbiamo avanzato, nel nostro intervento di mercoledì scorso, l’ipotesi che i redattori de La difesa della razza avessero già intenzione di utilizzare, come epigrafe per tutti i numeri del quindicinale, i due versi danteschi “uomini siate e non pecore matte,/ sì che il giudeo di voi tra voi non rida” (Par. V. 80-81), ma che abbiano preferito, a scopo prudenziale, mettere, sul primo numero, quelli relativi alla “confusione delle persone”, che sarebbe “principio del mal della cittade” (Par. XVI 67-68), per vedere che reazioni ci sarebbero state.
I versi del XVI Canto, infatti, erano usati in chiave chiaramente razzista, e, anche se il razzismo non era certo stato, fino a quel momento, una bandiera del regime, non c’era da temere, su questo piano, che si sarebbe sollevato uno scandalo. Chi mai sarebbe sceso in campo a difendere gli africani? E poi, la rivista non sollecitava contro di loro azioni violente o leggi razziali, metteva solo in guardia contro l’ibridazione della purissima razza italiana.
Con gli ebrei la situazione era molto diversa. Anche se Mussolini aveva pubblicato, sul Popolo d’Italia, all’inizio degli anni Venti, un articolo di denuncia del complotto “demo-giudo-pluto-masso”, non era più tornato sull’argomento, e aveva anche pubblicamente elogiato il contributo di sangue dato dagli ebrei italiani al Risorgimento e alla Grande Guerra. Come illustrato da studiosi come Renzo De Felice e Fausto Coen, l’atteggiamento degli ebrei italiani nei confronti del fascismo non differiva sensibilmente, fino al ’38, da quello del resto della popolazione. C’era una cospicua minoranza di entusiasti sostenitori, una piccola minoranza di oppositori (ovviamente, costretti al silenzio, o in esilio), e una vasta maggioranza passiva e conformista, che subiva la dittatura con sostanziale indifferenza. La percentuale degli oppositori era, tra gli ebrei, leggermente più alta, e quella dei sostenitori un po’ più bassa, ma non in modo significativo. Insomma, bisognava spiegare agli italiani che quelle persone, che fino a quel momento erano state considerate identiche a loro (e che come tali erano state trattate anche dallo stesso Duce), da quel momento non lo erano più.
Non appariva un compito facilissimo. Per raggiungerlo, i redattori ebbero un’idea che, dal loro punto di vista, si rivelò indubbiamente di grande efficacia, e le cui conseguenze continuano, purtroppo, a farsi sentire ancora oggi. Trasformare il millenario sospetto verso gli ebrei (di natura soprattutto teologica) in una variante – particolarmente insidiosa e maligna – del razzismo, dimostrando che esisteva una “razza ebraica”, del tutto diversa da quella italiana, e anche molto malefica e pericolosa. Una razza con la quale non solo – come con gli africani, che, tutto sommato, erano innocui – non bisognava mischiarsi, ma dalla quale occorreva anche difendersi, con mezzi energici e risoluti. E occorreva farlo subito: il pericolo era immediato, serio e grave. L’antisemitismo, così, diventava una sottocategoria di qualcosa di molto più esteso, perdendo, in buona parte, le proprie peculiarità. Come due bambole matrioska, la più grande – quella razzista – ne chiudeva dentro di sé una più piccola, quella antisemita. Ed era proprio la più minuscola, di gran lunga, la più ripugnante, proprio perché celata, nascosta, invisibile. Gli africani si riconoscevano dal colore della pelle, gli ebrei no.
Intendiamoci: razzismo e antisemitismo non sono certo stati inventati dai redattori de La difesa della razza (gente, fra l’altro, di infimo livello culturale). Tre secoli di schiavismo, nelle Americhe, avevano prodotto una fiorente pseudo-scienza in materia di razze, il saggio di Gobineau sulla “ineguaglianza delle razze umane” era già stato pubblicato nel 1853, così come i libracci antisemiti di Toussenel, di Marr e di Weininger, rispettivamente nel 1845, nel 1879 e nel 1902. E le invettive antisemite di Tertulliano, Lattanzio, Origene, Giovanni Crisostomo, Agostino e Ambrogio risalgono ai tempi dell’impero romano. Ma non erano forme di pensiero, nell’Italia degli anni ’20 e ’30, di larga diffusione. La novità del giornalaccio consisté non solo nel riproporle con forza, ma anche, e soprattutto, nel legarle insieme, in un micidiale cocktail, facendo credere che le due cose, razzismo e antisemitismo, fossero due facce della stessa medaglia. Niente di più falso, ma anche niente di più facile e comodo da far credere.
È vero, verissimo, che il razzismo è un abito comodissimo per l’antisemitismo, che calza benissimo. Taglia perfetta, stessa ignoranza, stesso odio, stessa malafede. Ma l’antisemitismo esisteva già secoli prima del razzismo, quando la parola ‘razza’ non esisteva, in nessuna lingua del mondo. Per molti secoli l’abito dell’antisemitismo è stato solo religioso, gli ebrei erano quelli che, tutti insieme, avevano ucciso Gesù. Solo dopo sono nati tanti altri vestiti: sociali, biologici, politici, economici… Tutti diversi, tutti uguali.
Ed è un elenco in continuo arricchimento. Ai giorni d’oggi vanno molto di moda altri abiti, dall’aspetto umanitario e benefico: si pensi, per esempio, ad Amnesty International, a Black lives matter, all’amore appassionato per la causa palestinese. Per questi nuovi antisemiti, democratici, progressisti, terzomondisti e antirazzisti, l’equivalenza, tracciata da La difesa della razza, tra razzismo e antisemitismo torna utilissima, come presunta patente di “non antisemitismo”. Gli antisemiti sono razzisti, noi siamo antirazzisti, quindi, automaticamente, siamo “anti-antisemiti”. Uno squallido gioco delle tre carte che, però, funziona.
Resta ora da esaminare il senso della coppia di versi del Paradiso che avrebbe fatto bella mostra di sé, sulla copertina del quindicinale, dal secondo numero fino alla fine delle pubblicazioni.
Cosa volevano fare pensare, i redattori, che Dante volesse dire con quei versi sulle “pecore matte”? E cosa voleva dire, in realtà, il poeta? Lo vedremo nelle prossime puntate.

Francesco Lucrezi

(6 aprile 2022)