Ghetto
Dario Calimani (Pagine Ebraiche 24 del 20 settembre 2022), scrive che la storia va ricordata e che quando qualcuno chiede (c’è stata al riguardo una lettera al Corriere della Sera, edizione romana) che non si usi più il nome Ghetto per riferirsi al quartiere ebraico di Roma, perché ricorda un periodo brutto e umiliante, si dovrebbe considerare che non è sufficiente cancellare il nome per cancellare la storia e il dolore.
A quanto da Calimani giustamente rilevato, potremmo soggiungere che vi è il malvezzo di fare sovente riferimento al c.d. “ghetto ebraico” come se vi fosse stato un ghetto di qualsiasi altra fede.
Ciò posto, il ghetto di Roma, fisicamente non esiste più, a meno che si tenga per tale il tratto d’espansione di Via della Reginella. A proposito di inesistenze, mi è pure accaduto che mi chiedessero del Teatro di Pompeo, ma le poche volte che lo fanno rispondo che sarebbero dovuti venire qualche millennio prima, perché quel che è rimasto si trova soprattutto sotto Via di Grotta Pinta che, non a caso, è circolare. Anzi, possiamo pure dire che il Teatro di Pompeo è nato con un abuso urbanistico perché, essendovi all’epoca il divieto di costruire teatri in muratura, per evitare che fossero luoghi di adunate sediziose, Pompeo Magno pensò bene di aggirare il divieto dichiarando che avrebbe costruito un tempio, per poi, mediante un cambio di destinazione in frode alla legge, destinare l’opera a scopo teatrale.
Tornando, però, al ghetto, poiché non ne rimane una pietra che sia una, non sarebbe esatto dire di abitare in ghetto. Trattasi, invero, e tanto per dimostrare quanto io sia pedante, dell’area in cui sorgeva il ghetto, dal 1555 fino alla demolizione operata dai piemontesi dopo la liberazione di Roma (e degli ebrei) che ha inizio col 20 settembre 1870.
Intendiamoci, non è offensivo ricorrere al termine ghetto, e qui quanto dice Calimani rivela tutto l’afflato morale e l’amor di verità che gli sono propri. Il problema soggiacente, comunque, riguarda come si ricorre al termine “ghetto”; beninteso, si può adoperare in tanti modi, basta che non vi sia mai un significato che richiami qualche cosa di pittoresco perché, in quel caso dovremmo soltanto sperare che un siffatto uso non sfiori mai le imponderabili orecchie dei nostri trapassati, che furono confinati, innocenti, in quella lurida galera, gravata di infinite vessazioni e umiliazioni.
Poiché era sufficiente convertirsi per uscirne, quei nostri avi sono stati degli eroi dell’ebraismo, coi quali tutti noi abbiamo contratto un inestinguibile debito; se abbiamo ancora un’identità ebraica, è grazie a loro. Di quella collana virtuosa, loro sono stati le perle più rifulgenti.
Emanuele Calò, giurista