Periscopio – I giganti

Dopo avere trattato, nelle puntate precedenti, la questione della considerazione, da parte di Dante, dell’ebraico come lingua primigenia dell’umanità (la lingua di Adamo), degna perciò del più alto rispetto, abbiamo affrontato il problema dei possibili significati da attribuire alle oscure parole di Pluto, all’inizio del VII Canto dell’Inferno: Pape Satàn, pape Satàn Aleppe! E lo abbiamo fatto per confutare l’idea corrente secondo cui l’enigmatica frase possa essere considerata, almeno in parte, come un’espressione ebraica, cosa, a nostro avviso, non vera.
È il momento ora di esaminare due note espressioni della Commedia che rinviano invece chiaramente alla lingua ebraica, sia pure in modo molto diverso. Si tratta del verso 67 del XXXI Canto dell’Inferno e dei versi 1-3 del VII Canto del Paradiso. Due concatenazioni di parole che paiono collocarsi agli antipodi l’una dell’altra, e che vanno valutate congiuntamente, perché è proprio dal loro confronto che emerge il loro significato. La Commedia è un poema religioso, e, come per la Torah, nessuna sua parte può essere isolata e interpretata fuori dal contesto complessivo dell’opera, senza essere posta in relazione con gli altri passi che ad essa sono, esplicitamente o implicitamente, collegati.
Nel XXXI Canto, Dante e Virgilio, superata la decima bolgia, si lasciano alle spalle l’VIII cerchio, ove sono suppliziati i traditori di chi non si fida, per entrare nel luogo più profondo e terribile dell’Inferno, quello dei traditori di chi si fida. La differenza è essenziale, perché, se il tradimento è sempre una colpa esecrabile, essa è tanto più nefanda quando è rivolta contro chi aveva dimostrato fiducia verso chi lo avrebbe poi proditoriamente colpito. Il traditore di chi si fida è anche un vile, perché colpisce un uomo che aveva abbassato la guardia, pensando di avere a che fare con un amico. Con l’arma dell’inganno e della falsità, fa del male a qualcuno che aveva volontariamente deposto le armi, mettendosi inerme nelle sue mani. Una colpa molteplice ed esecranda, che merita di essere punita nel più profondo dell’Inferno, perché non ve ne può essere una maggiore.
Se i traditori di chi non si fida, nell’VIII cerchio, sono divisi in dieci bolge (ruffiani e seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordie, falsari), quelli di chi si fida, nel IX cerchio, sono collocati in quattro distinte ‘zone’: Caina (traditori dei parenti), Antenora (traditori della patria), Tolomea (traditori degli amici), Giudecca (traditori dei benefattori).
Ma quel che ci interessa, in questa sede, è la mirabile visione con la quale il poeta intende rimarcare la radicale differenza tra i dannati delle dieci bolge e quelli delle quattro zone. L’VIII e il IX cerchio (il terribile regno di ghiaccio, ove siede Satana in persona), infatti, sono separati da una tetra voragine, un profondo e oscuro pozzo, avvolto dalle tenebre, nel quale a Dante pare di scorgere delle enormi sagome, che egli crede essere delle torri. Ma Virgilio gli spiega che non si tratta di torri, bensì di giganti imprigionati. Tra di essi, i due visitatori riconoscono Nembròt, il gigante che avrebbe cercato di edificare la torre di Babele, il quale, come già aveva fatto Pluto, all’inizio del VII Canto, si rivolge loro con parole oscure: Raphèl maì amècche zabì almi. E, come aveva già fatto con Pluto, anche in questo caso Virgilio zittisce l’interlocutore con parole sprezzanti, chiamandolo “anima sciocca” (70). Ma lo stesso Virgilio, subito dopo, spiega a Dante che il gigante, colpevole della nascita della confusione delle lingue, non può capire le parole che gli vengono rivolte, perché non gli è più dato di comprendere nessun linguaggio umano, così come nessuno può capire il suo (“ch’a nullo è noto”: 81).
Le parole di Nembròt, quindi, per stessa dichiarazione di Virgilio, sarebbero incomprensibili. C’è una netta differenza, però, con il Pape Satàn aleppe di Pluto, perché, come abbiamo detto, quelle del dio della ricchezza sono non parole, ma meri suoni, emessi da una “fera bestia” (un lupo), mentre Nembròt è un essere umano, sia pure mostruoso, e le sue sono parole umane, non prive di senso, ma dal significato inintelligibile.
Se quelle di Pluto, dunque, non sono parole ebraiche, e neanche parole, ma semplici suoni, quelle di Nembròt, invece, sono parole, parole umane. E, anche se Virgilio afferma che esse non possono essere comprese, appare evidente che richiamino l’idioma ebraico (che, come abbiamo ricordato, sarebbe stata la lingua dell’umanità prima dell’episodio della torre di Babele, e quindi anche la lingua di Nembròt).
Nembròt parla, almeno apparentemente, in ebraico, ma un ebraico particolare, che non si può capire. Come mai?
Lo vedremo la prossima puntata.

Francesco Lucrezi