Appelli per Israele

Israele – I motivi di Jcall, di Giorgio Gomel
Israele – I motivi di Con Israele, con la Ragione, di Fiamma Nirenstein
Invece di firmare appelli, studiamoci l’ebraico, di David Bidussa
Gli amici, nemici di Israele, di Victor Magiar
Appelli e controappelli – Quel che si vede da qui non si vede da lì, di Alberto Lattes
Appelli e controappelli, di Francesco Lucrezi

Israele – I motivi di Jcall

Ragione, ragionevolezza. Amos Oz, nelle sue Lezioni all’Università di Tubinga contro il fanatismo di qualche anno fa, elogiava il compromesso e la moderazione, come antidoti contro il fanatismo che è all’opposto unilaterale, estremo, negatore delle opinioni dell’altro.
Questo è il motivo ispiratore di un appello – detto JCALL – , fratello di Jstreet, un importante movimento d’opinione e di pressione animato da ebrei americani in sostegno di una soluzione di pace fra Israele e i palestinesi.
L’appello, è stato redatto da diversi gruppi ebraici europei, in sintonia con i movimenti che in Israele sostengono l’esigenza di un negoziato con i palestinesi in vista di una soluzione basata sul principio di “due stati per due popoli.” In Italia se ne è fatto promotore il Gruppo Martin Buber-Ebrei per la Pace (www.martinbubergroup.org), che da anni propugna queste idee. L’appello, presentato il 3 maggio scorso al Parlamento europeo, è stato sottoscritto ad oggi da oltre 6000 ebrei in Francia, Belgio, Svizzera, Italia, Olanda, Svezia, Gran Bretagna, Germania, ecc.
Quali i contenuti e i propositi di JCALL? Perché chiedo, a nome dei promotori, agli ebrei italiani di aderirvi e di appoggiare le iniziative concrete che stiamo organizzando?
Intanto non è una petizione come tante altre rivolta a raccogliere banalmente adesioni, rincorrendo firme, illustri o meno, come altri sguaiatamente tendono a fare. Vuole essere, invece, un momento di aggregazione intorno ad alcuni principi fondamentali sulla base dei quali dare corpo a un movimento ebraico europeo che faccia da contrappeso alle istituzioni e organizzazioni ebraiche che appoggiano acriticamente il governo di Israele e che possa così interagire in Europa con gruppi e movimenti che in Israele e negli Stati Uniti operano con gli stessi intenti.Questo aspetto è stato colto con chiarezza dalla stampa in Israele, come in diversi paesi europei. E’ un qualcosa di nuovo, dal punto di vista organizzativo : per le particolarità dell’Europa, le diversità nazionali, la frammentazione dell’ebraismo europeo, la sua stessa debolezza, non vi era nulla simile prima della fondazione di JCALL, anche se le idee ispiratrici, cioè il sostegno al dialogo di pace fra israeliani e palestinesi al fine di giungere ad un accordo basato sulla formula di “due stati per due popoli”, con confini riconosciuti, Gerusalemme capitale dei due stati, e Israele e Palestina in rapporti di buon vicinato in un Medio Oriente pacificato, risalgono a battaglie condotte da molti anni.
Nella posizione di JCALL è molto esplicito ed importante – io ritengo, dal punto di vista etico-politico – il rivendicare con forza il diritto/dovere di ebrei della Diaspora di criticare i governi di Israele per la dissennata espansione degli insediamenti ebraici e la mancanza di una strategia coerente volta a porre fine all’occupazione e a giungere ad una soluzione negoziata di pace, che spartisca quella terra – Eretz Israel o Palestina – contesa fra due popoli con pari diritti nazionali e consenta a Israele di sopravvivere in futuro come stato democratico degli ebrei.
Giorgio Gomel, 25 maggio 2010

L’appello, che trovate qui sotto, è stato redatto da diversi gruppi ebraici europei, in sintonia con i movimenti che in Israele sostengono l’esigenza di un negoziato con i palestinesi in vista di una soluzione basata sul principio di “due stati per due popoli.”
In Italia se ne è fatto promotore il Gruppo Martin Buber-Ebrei per la Pace.

Jcall – L’appello

Siamo cittadini ebrei di paesi europei impegnati nella vita politica e sociale dei nostri rispettivi paesi. Qualunque sia il nostro percorso personale, il legame con Israele è parte costitutiva della nostra identità. Il futuro e la sicurezza di questo stato al quale siamo molto legati ci preoccupano.
Ancora una volta l’esistenza di Israele è in pericolo. Il pericolo non proviene soltanto dalla minaccia di nemici esterni, ma dall’occupazione e dalla continua espansione delle colonie in Cisgiordania e nei quartieri arabi di Gerusalemme Est, un errore morale e politico che alimenta, inoltre, un processo di crescente, intollerabile delegittimazione di Israele in quanto stato.
Per questa ragione abbiamo deciso di mobilitarci intorno ai principi seguenti:
1. Il futuro di Israele esige di giungere a un accordo di pace con il popolo palestinese sulla base del principio di “due popoli, due stati”. Lo sappiamo tutti, l’urgenza incalza. Presto Israele sarà posta di fronte ad un’alternativa disastrosa: o diventare uno stato dove gli ebrei saranno minoritari nel proprio paese o mantenere un regime che trasformerebbe Israele in uno stato paria nella comunità internazionale e in un perenne teatro di guerra civile.
2. E’ essenziale che l’Unione Europea a fianco degli Stati Uniti eserciti una pressione forte sulle parti in lotta e le aiuti a giungere a una composizione ragionevole e rapida del conflitto. L’Europa in ragione della sua storia ha una grande responsabilità in questa regione del mondo.
3. Se la decisione ultima appartiene al popolo di Israele, la solidarietà degli ebrei della Diaspora impone di adoperarsi perché questa decisione sia quella giusta. Allinearsi in modo acritico alla politica del governo israeliano è pericoloso perché va contro i veri interessi dello Stato d’Israele.
4. Vogliamo dare vita a un movimento europeo capace di fare intendere a tutti la voce della ragione. Un movimento che si pone al di sopra delle differenze di parte e di ideologia con l’unica ambizione di adoperarsi per la sopravvivenza di Israele come stato ebraico e democratico, che è strettamente legata alla creazione di uno stato palestinese sovrano e autosufficiente.
E’ in questo spirito che vi chiediamo di firmare e fare firmare questo appello.
Coloro che intendono aderire possono farlo sul sito: www.Jcall.eu, seguendo le istruzioni ivi contenute. Per proposte di attività, contattare : info@martinbubergroup.org

Israele – I motivi di Con Israele, con la Ragione

Ho letto la lettera di Giorgio Gomel apparsa sul notiziario quotidiano dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane “l’Unione informa” del 25 maggio 2010 e avendo io stilato personalmente l’appello “Con Israele, con la Ragione” firmato da cinquemila persone, ci sono alcuni punti che mi sembra doveroso chiarire al lettore.
Innanzitutto stupisce il tono sferzante di Gomel verso chi non la pensa come lui. Pensando di leggere un’allusione al nostro appello quando parla di firme raccolte “sguaiatamente” mi domando cosa lo possa autorizzare a un pensiero così volgare. Ci sembra inoltre che il suo principale problema, come quello dei promotori di JCall, non sia quello di raggiungere la pace ma piuttosto di come appoggiare i movimenti che attaccano Israele. Ciò è legittimo, ma poiché a noi interessa soprattutto realizzare un percorso di pace e niente affatto sostenere questo o quel governo, non ci resta altro che spiegare una incontrovertibile verità storica, che, sola, può condurre alla soluzione di due stati due popoli.
E’ la verità della necessità di una presa di responsabilità da partre della leadership palestinese e del mondo arabo in generale. E’ dal novembre del 1947, quando l’ONU sancì la spartizione con la Risoluzione 181, che l’atteggiamento arabo è stato quello di un susseguirsi di sanguinosi “no” alla presenza di uno Stato ebraico nell’area mediorientale. Questa scelta, che negli anni si è sempre più dipinta dei colori dell’islamismo e della esaltazione del terrorismo suicida, è letteralmente esplosa in faccia a Isreale ogniqualvolta esso si sia affacciato alle più decise profferte territoriali, dal 48 al dopo guerra del 67, via via fino a Camp David nel 2000 e alle offerte di Annapolis nel 2007, quelle di Olmert. Israele ha dato segno di grande responsabilità nei vari sgomberi, non ha mai rifiutato di trattare il problema territoriale, ha lasciato il Sinai, il Libano, tutte le città palestinesi, Gaza…
E’ impossibile non vedere che ciò che manca non è la volontà di Israele di cedere territorio, ma quella del mondo arabo e palestinese di procedere sulla strada della pace accettando la richiesta di Netanyahu di accogliere l’esistenza di uno Stato del popolo ebraico. Impossibile non accorgersi che l’incitamento antiebraico, con l’esaltazione incessante del terrorismo, è il più grande ostacolo sulla strada della pace e che occorre richiedere ai palestinesi una presa di responsabilità che garantisca almeno in parte la sicurezza di Israele, straziata da tante morti innocenti.
E’ inoltre assurdo gravare Israele anche di responsabilità che non può affrontare, quella dell’intero processo di pace, in un momento di pericolo estremo per la sua stessa esistenza. Tutto questo è spiegato nel nostro appello che invito tutti a leggere e a firmare e che, insieme a quello analogo firmato da più di 10 mila persone promosso in Francia da Shmuel Trigano, sarà presentato il 12 luglio nel corso di un evento pubblico.
Fiamma Nirenstein
Vicepresidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati, 26 maggio 2010

(www.fiammanirenstein.com)

Con Israele, con la ragione – L’appello

L’aggressione a Israele dei firmatari del documento Jcall è ispirata da una visione miope della storia del conflitto arabo-israeliano, da una mancanza di percezione chiara del pericolo che Israele corre oggi di fronte a un grande attacco fisico e morale. E’ addirittura incredibile che personaggi intelligenti e colti come Alain Finkelkraut e Bernard-Henri Levy, invece di occuparsi dell’Iran che ben presto terrà tutto il mondo nel raggio della minaccia della sua bomba atomica, bamboleggino con l’idea che Benjamin Netanyahu sia il vero ostacolo alla pace, che l’impedimento essenziale per giungere a una risoluzione del conflitto sia un ipotetico, riprovevole atteggiamento israeliano. Sembra che gli intellettuali firmatari ignorino la realtà e inoltre che se ne infischino del contributo che il loro documento darà e sta già dando al movimento di delegittimazione senza precedenti che minaccia concretamente la vita di Israele.
Voler spingere Israele a concessioni territoriali senza contraccambio significa semplicemente consegnarsi nelle mani del nemico senza nessuna garanzia: lo sgombero di Gaza, compiuto senza trattativa, ha portato risultati disastrosi, il territorio lasciato dagli abitanti di Gush Katif è diventato un’unica rampa di lancio per missili e terroristi; la trattativa di Ehud Barak, intesa a cedere a Arafat praticamente tutto quello che chiedeva, portò semplicemente all’orrore della seconda Intifada, con i suoi duemila morti uccisi da attentati suicidi. Lo sgombero della fascia meridionale del Libano nel 2000 ha rafforzato gli Hezbollah, li ha riempiti di missili, ha condotto alla guerra del 2006.
Alain Finkelkraut, Bernard-Henri Levy e i loro amici sostengono di preoccuparsi per il futuro e la sicurezza d’Israele, ma di fatto ignorano l’elemento basilare che ha impedito ai processi di pace di andare in porto, ovvero il rifiuto arabo e palestinese di riconoscere l’esistenza stessa dello Stato d’Israele come dato permanente nell’area. Basterebbe che ogni mattina leggessero la stampa palestinese e araba e se ne renderebbero conto. Nessuna concessione territoriale di quelle che gli intellettuali francesi sembrano desiderare con tanta energia può garantire la pace, ma solo una rivoluzione culturale nel mondo arabo. E nessuno la chiede, nemmeno Obama che invece preme solo su Israele. E’ divenuta la moda di questo tempo.
L’attacco a Netanyahu che si legge nell’appello di Jcall è volto a destrutturare la sua coalizione di destra. Ma la realtà è che non è mai contato nulla che un governo israeliano fosse di destra o di sinistra: i Palestinesi hanno sempre comunque rifiutato ogni proposta di pace.
Ma che Israele diventi ancora più piccolo non servirà a niente finché Abu Mazen non rinuncerà a intitolare le piazze al nome dell’arciterrorista Yehiya Ayash, finché il mondo palestinese non smetterà di distribuire caramelle quando viene ucciso un ragazzo ebreo in qualche ristorante, finché non accetterà la richiesta davvero minimalista di Netanyahu di riconoscere che lo Stato di Israele è lo Stato del popolo ebraico.
Sembrano ignorare questo dato evidente anche gli intellettuali israeliani che hanno firmato un documento addirittura contro il premio Nobel Elie Wiesel che ha scritto una nobilissima lettera in sostegno di Gerusalemme come patria morale e storica del popolo ebraico.
E’ una triste epidemia perbenista, con la quale probabilmente si pensa di fornire un po’ d’ossigeno ai movimenti pacifisti che in questi anni non ha saputo altro che fallire ripetutamente sullo scoglio della cultura dell’odio islamista e contribuire alla diffamazione di Israele. Ma non si arriverà a nessun processo di pace (e le generose offerte di Olmert rifiutate da Abu Mazen ne fanno fede) finché una larga parte del mondo non smetterà di sperare che la distruzione di Israele sia dietro l’angolo, sulla scia della nuova eccitazione islamista dell’Iran e dei suoi amici Siria, Hezbollah, Hamas tutti sempre più armati di armi letali, e non solamente di vane parole, come i firmatari dell’”appello alla ragione”. Ma anche le parole possono uccidere e distruggere.
Non ci sfugge, di fronte a una così evidente ignoranza della politica della mano tesa di Netanyahu con il discorso di Bar Ilan e il congelamento di dieci mesi degli insediamenti, lo sblocco di molti check point e la promozione di importanti misure per agevolare l’economia palestinese, che sia presente nel “documento Finkelkraut” un traino obamista, un perbenismo da salotto buono cui spesso gli intellettuali non sanno dire no. Esso mette i nemici di Israele, e sono più di sempre e più agguerriti, nella condizione di delegittimare e attaccare lo Stato ebraico, dicendo: “Anche molti ebrei sono dalla nostra parte”. Se questo era lo scopo dei firmatari, lo hanno raggiunto.
Coloro che intendono aderire possono farlo sul sito: http://www.petitiononline.com/israel48/petition-sign.html, seguendo le istruzioni ivi contenute.

Appelli e controappelli – Quel che si vede da qui non si vede da lì

Seguo in questi giorni da Israele la polemica che si va sviluppando negli ambienti ebraici della Diaspora attorno agli appelli e ai controappelli (Jcall e seguenti), e i relativi inviti al supporto o all’astensione.
Premesso che si possono vedere validi elementi e intenzioni in ogni posizione e assumo ovviamente la buona fede di ogni schieramento, nonostante ciò nella polemica scaturita c’è qualcosa che non convince. Non sono le tesi delle parti né le argomentazioni, ma è il metodo quello che non si capisce. Un metodo che risulta ancor più incomprensibile se visto da quaggiù, da Israele. Quale possa mai essere il motivo per cui i miei parenti e i miei amici e gli altri ebrei che non conosco, ma che il legame con lo Stato ebraico è intrinseco in loro, sentano il bisogno di spiegarci in questo modo – cioè con un appello rivolto a tutto il mondo – come dobbiamo fare per non mandare più i nostri figli a combattere, per non saltare in aria quando andiamo al mercato o peggio per non ricevere qualche missile sulla testa quando dormiamo: insomma cosa dovremmo fare per fare la pace con i nostri vicini.
Certamente è giusto che ognuno esprima le proprie opinioni, e la dialettica è sempre stato il mezzo migliore per il progresso delle idee. Ma cercare di forzare le posizioni politiche di un paese con un appello pubblico, che è poi in fin dei conti una sorta di intimazione in nome della “democrazia” ad abbandonare (con riferimento a Jcall e simili ovviamente) la politica del governo eletto dal popolo in un paese – si spera – democratico, è altra cosa.
Ciò è in qualche modo assimilabile a un conflitto condominiale (ben altra cosa rispetto alla sanguinosa diatriba mediorientale) in cui i parenti e gli amici di una delle parti formulino un comunicato mandato in copia al giudice (l’opinione pubblica mondiale e la stampa in questo caso) e all’altra controparte invitando il povero malcapitato a seguire una strada diversa da quella da lui scelta con il proprio avvocato, una strada più condiscendente e ragionevole “nel suo stesso interesse”. Questo beninteso quando questi parenti e amici non solo non hanno in essere alcun dissapore con l’altro condomino e non sono costretti a sopportarlo giornalmente, ma non abitano neanche nel comprensorio, non pagano le spese dell’avvocato e non si faranno poi carico degli oneri processuali che deriveranno dal processo (salvo poi che il loro parente dovesse malauguratamente perdere la causa e la proprietà: non potrebbe più ospitarli nelle loro vacanze, o includerli come comproprietari, loro o i loro figli, in un futuro più o meno remoto e magari si ritroverebbe a battere alla loro porta come ‘senza tetto’ – ma è storia troppo poco immanente e poco può crucciarli).
Nella vita di tutti i giorni i parenti e gli amici non si intromettono direttamente, prendono sì qualsivoglia posizione, spesso astenendosi ma anche discutendo animatamente con il congiunto, ma è difficile riscontrare casi come quello descritto sopra.
E allora perché è così diverso l’intervento dei nostri parenti ed amici nel caso di Jcall da quanto si verifica normalmente? Perché uscirsene con un richiamo ufficiale alla politica israeliana, quando non esiste affatto un contrappeso che faccia pressioni simili sulla parte avversa, invitando anch’essa a una maggior condiscendenza? E allora perché richiamare, soprattutto, la parte amica?
Errori ci sono stati, ci sono e sempre ci saranno nelle posizioni e nella politica di entrambe le parti. La soluzione auspicabile e definitiva, se pur si arriverà mai a essa, non potrà che essere una soluzione di compromesso che non soddisferà in toto nessuna delle due parti. Molte sono le strade percorribili per raggiungere una determinata meta, non sempre possono essere escluse a priori e spesso sono giudicabili solo a posteriori viste in prospettiva storica. Sarà veramente quella caldeggiata dai nostri parenti e amici la strada giusta?
Prima di concludere vorrei far presente una situazione simile con i dovuti distinguo. Accadeva solo poco tempo fa, ma la direzione era opposta e gli echi sono ancora vivi. Il problema era relativamente più semplice: una discussione in famiglia, fra ebrei; eppure nella diaspora molti protestavano: “Cosa ne sanno loro in Israele del nostro ebraismo?”, “come possono intervenire senza conoscere la situazione locale?”. Così si lamentava la piazza romana a seguito di discussioni sulla kasherut per Pesach fra il rabbinato italiano e quello israeliano e le intromissioni di quest’ultimo. Invece non credo che Israele abbia mai redarguito pubblicamente, magari con una bella pubblicità sui giornali nazionali, le istituzioni ebraiche della Diaspora per le posizioni politiche o per il modo di gestire le loro diatribe con le istituzioni nazionali.
In sostanza c’è una tendenza umana a intervenire, a prendere posizione e a spiegare agli altri cosa è bene che facciano, ma non bisogna dimenticare come si dice da queste parti che “quel che si vede da qui non si vede da lì”.

Alberto Lattes, 31 maggio 2010

Invece di firmare appelli, studiamoci l’ebraico

Ancora una volta si è ripresentata la scena di sempre. Qualcuno lancia un testo da firmare, altri lanciano contrappelli. Poi parte una discussione infinita. Ci sono buone ragioni che stanno in tutti i testi, sia quello promosso da Alain Finkielkraut e più noto come JCall, sia quello promosso da Pierre André Taguieff e Shmuel Trigano, nonché la versione italiana di quest’ultimo proposto da Fiamma Nirenstein, Giuliano Ferrara, Paolo Mieli. Il rischio della scomparsa di Israele, della minaccia nucleare che lo sovrasta, è reale. Il rischio di una classe politica inadeguata, quello di una situazione bloccata, sono altrettanto reali, E’ anche reale il fatto che la Diaspora deve assumere la propria responsabilità. Dunque perché non firmo? Perché il compito della Diaspora non è quello di darevoti a qualcuno, bensì quello di misurare con gravità le proprie lacune e carenze e di comprendere come “dare una mano” per essere consapevolmente e responsabilmente nella storia. Il rischio della scomparsa di Israele rende manifesto un fatto: ciò che è messo in dubbio è la capacità degli ebrei della Diaspora di produrre cultura ebraica e lo è perché oggi Israele è non solo la realtà che produce cultura ebraica, ma che la produce attraverso uno strumento che è universalistico, ovvero una lingua ebraica viva. Pensare di essere dei soggetti attivi e non solo dei supporter significa far parte del club di coloro che la usano e con quello strumento, creano qualcosa. O almeno, più modestamente, ci provano. Prima di dire di quale parte politica si è supporter, occorre dare una risposta a questa questione. Non si è più a fianco di Israele se si fa il tifo per Netanyahu, per Tzipi Livni o per l’area della pace. Gli uomini e le donne passano. Ma la macchina culturale non può decomporsi. La Diaspora non esce d’obbligo se dice con chi sta, bensì se diventa parte attiva, anche parziale, di un processo di produzione culturale. Questo aspetto è tanto più vero se si considera un fatto, apparentemente paradossale: senza Israele l’ebraismo religioso forse può sopravvivere, quello laico no. Per questa ragione è fondamentale che una parte consistente del mondo ebraico acquisisca uno strumento per studiare, riflettere, sapere. Uno strumento che non serva “per fare qualcosa”, ma per raggiungere la consapevolezza e crearsi un’opinione sulle proprie decisioni intorno all’identità. Prima ancora di essere uno strumento per un sapere libresco, la conoscenza dell’ebraico è una chance per riflettere sulla propria identità e per decidere chi si sia: in autonomia, responsabilmente, con cognizione di causa. Ciò detto entriamo nella questione. La storia ebraica è una storia di centri produttivi che nel tempo ed in luoghi diversi hanno disegnato la fisionomia di ciò che oggi chiamiamo la “cultura ebraica”. In ogni fase storica c’è stato un centro che ha ereditato il patrimonio culturale (o almeno una parte) o lo ha “riscritto”, incrementato e sviluppato. Un centro pensato per molte realtà diffuse per una rete che non era solo unidirezionale, dal centro verso le lontane periferie.
In forma disomogenea, squilibrata, incerta anche le periferie contribuivano a pensare e a produrre sapere che quel centro riadattava, metabolizzava, accoglieva o marginalizzava. La storia ebraica, intesa come storia della produzione culturale, è l’atlante storico dei luoghi che nel tempo hanno prodotto in forma discreta – con salti, vuoti, differenze – ciò che con molta approssimazione noi chiamiamo “cultura ebraica”. Nella dispersione quei luoghi sono stati collocati in più punti e in tempi diversi. Un rapido elenco ne include vari: Babilonia, Alessandria d’Egitto, Cordova, Alsazia, Italia, Polonia, Stati Uniti, Israele. In mezzo ci sono molti luoghi che rappresentano nodi problematici in cui si sono consumate vicende singolari che hanno lacerato e riscritto le identità di un tempo: Amsterdam, Berlino, Istanbul, Chicago, Livorno, Padova. Accanto c’è tutta la questione dei marrani, una vicenda che è culturale e non solo l’indagine sull’albero genealogico. Ogni volta il centro successivo era in grado di ereditare la funzione di nucleo produttivo perché la lentezza del processo di distruzione e di dispersione consentiva passaggi di saperi, di testi, di gruppi umani. In breve la continuità era consentita e garantita da un sistema di rete. Dunque, una diaspora che si ponga il problema di come scongiurare la minaccia all’esistenza deve avere anche consapevolezza di partecipare a una produzione culturale. Per questo non si tratta di “fare il tifo” per qualcuno, ma cercare di dotarsi degli strumenti per essere una voce in qualcosa. Questo significa impegnarsi sul piano della produzione culturale, investendo risorse ed energie anche sul piano della conservazione dei beni culturali (che significa digitalizzazione, riproduzione). Il futuro ebraico esisterà solo se ci saranno uomini e donne in grado di produrlo e di leggere e capire ciò che rimarrà, ma anche se da qualche parte si crea un deposito di testi, documenti, di beni culturali che non “andranno in fumo”. Beni leggibili da una collettività pluralista, interculturale e non solo multiculturale. Riflettere sulla condizione ebraica di domani, agire per garantire la continuità non è solo conseguente a una scelta di schieramento politico. Non sostengo, né ritengo, che la dimensione politica sia inessenziale. Ma la concentrazione di tutte le energie solo su quella scelta ha significato, soprattutto per le Diaspore, non riflettere né impegnarsi su altri campi, non meno essenziali. Questi non sono solo altrettanto rilevanti, ma decisivi, se il tema che ci riguarda e ci coinvolge è quello relativo al futuro culturale e a una possibile condizione di produttori e non solo di consumatori.
David Bidussa, storico sociale delle idee, Pagine Ebraiche, giugno 2010

Gli amici, nemici di Israele

Fa sempre impressione osservare come sia facile, quando si discute di vicende mediorientali, approdare a posizioni di pensiero radicali e, di conseguenza, manichee.
Settimane fa alcuni intellettuali ebrei europei, noti sostenitori delle “ragioni” di Israele, hanno scritto un appello, denominato “Appello alla Ragione”, che aveva il duplice obiettivo di sostenere Israele e di incoraggiare la ricerca di un compromesso con i palestinesi.
L’appello proposto dal nascente gruppo ebraico-europeo JCall, sostenuto da autorevoli studiosi israeliani (Zeev Sternhell, Elie Barnavi, Avi Primor…) ha raccolto migliaia di firme fra i quali mi limito a citare Alain Finkelkraut e Bernard-Henri Levy.
L’incipit era molto chiaro: “Ancora una volta l’esistenza di Israele è in pericolo. Il pericolo non proviene soltanto dalla minaccia di nemici esterni, ma dall’occupazione e dalla continua espansione delle colonie” … e poi ancora si affermava che questa espansione sarebbe “un errore morale e politico che alimenta, inoltre, un processo di crescente, intollerabile delegittimazione di Israele in quanto stato”.
Tesi questa già sostenuta da diversi governi, come quello statunitense o quello italiano.
Per nostra fortuna siamo in democrazia e così alcuni politici ed intellettuali, ebrei e non, hanno pensato di scrivere un contrappello (ma solo contro JCall), denominato “Con Israele, con la Ragione ”, appello che mi ha totalmente sconcertato.
L’incipit di questo secondo appello è infatti assai eloquente: “L’aggressione a Israele dei firmatari del documento Jcall” … un’affermazione questa, oltre che incredibile e piuttosto aggressiva, votata immediatamente alla “delegittimazione dell ‘ altro”. Infatti prosegue la frase “E’ addirittura incredibile che personaggi intelligenti e colti come Alain Finkelkraut e Bernard-Henri Levy, invece di occuparsi dell’Iran … bamboleggino con l’idea che Benjamin Netanyahu sia il vero ostacolo…” .
Ovviamente si può non condividere l’appello di JCall, ma trovo incredibile, offensivo e pericoloso, che il contrappello invece di essere sul merito delle vicende mediorientali sia un insulto ed una messa all’indice di persone ed anche (siamo sinceri) una distorsione delle tesi altrui.
Cosa dicono gli “intelligenti e colti” Alain Finkelkraut e Bernard-Henri Levy ? Semplicemente che l’espansione delle colonie è un errore morale e politico che, peraltro, alimenta la delegittimazione di Israele come stato.
Spieghino i sostenitori del secondo appello “Con Israele, con la Ragione “ perché l’espansione delle colonie non sarebbe un problema.
Spieghino soprattutto perché si può bollare come una “aggressione a Israele” sostenere che l’espansione delle colonie sia una problema per la sicurezza di Israele.
Per decenni emotività e semplificazioni hanno generato, sia in campo ebraico che in quello arabo, una reale impossibilità a ragionare, cioè a trovare delle posizioni politiche che portino ad un compromesso, appunto, ragionevole.
Questo trionfo dell’emotività e della semplificazione ha generato in primo luogo uno spirito fazioso che, storicamente, ha sempre colpito i “ragionevoli” di casa propria, accusati di tradire o svendere il proprio popolo: questo il fenomeno carsico che ha portato all’assassinio di Sadat e di Rabin.
Tutti sappiamo che portare la pace in Medio Oriente è opera assai difficile, e certo non esistono scorciatoie o formule magiche ne tantomeno ci riusciranno appelli e contrappelli. L’unica salvezza per Israele è la pace: la pace è un compromesso, necessariamente ragionevole.
La situazione di guerra prolungata è una minaccia reale per l’esistenza del piccolissimo Israele circondato da nemici totali e totalitari (da Hamas all’Iran di Ahmadinejad) e i nemici esterni quindi non mancano.
Ma il pericolo non è solo la forza distruttiva del nemico esterno ma anche la propria debolezza: la minaccia può essere quindi interna e la mancanza del rispetto delle idee altrui e delle persone è una grande debolezza, una grande minaccia.
Allora hanno ragione Finkelkraut e Levy: ancora una volta l’esistenza di Israele è in pericolo, e il pericolo non è solo esterno.
Victor Magiar, Europa, 7 maggio 2010

Appelli e controappelli

L’“Appello alla ragione”, promosso dal gruppo “JCall”, a cui ha aderito un considerevole numero di intellettuali ebrei francesi (fra cui Bernard Henry-Levy e Alain Finkelkraut), con l’invito al governo israeliano a impegnarsi in un’inversione di tendenza nelle contestata politica delle costruzioni – oggetto di severa critica da parte di un successivo “controappello” a sostegno del governo di Gerusalemme (“Con Israele, con la ragione”, promosso da Fiamma Nirenstein), a sua volta bersaglio di critiche, poi controcriticate ecc. ecc., in un’inarrestabile spirale polemica – appare, al di là delle specifiche argomentazioni e parole adoperate, tutte legittime e tutte opinabili, decisamente sbagliato, per tre distinte ragioni:
1) Il diritto di critica è non solo sacrosanto, ma anche salutare. Esso è esercitato costantemente, nei confronti delle scelte politiche di Israele, dagli stessi cittadini israeliani, e da chiunque abbia a cuore le sorti di quel Paese, e non si deve mai confondere la legittima critica con l’odio o la delegittimazione. Un ‘appello’, però, è qualcosa di diverso da, per esempio, un articolo di giornale, un discorso, un comizio, in quanto, per definizione, pretende non solo di descrivere la realtà, ma anche di incidere sulla stessa, invitando qualcuno a fare qualcosa. In presenza di un conflitto, un appello, per apparire ragionevole ed equilibrato, dovrebbe quindi rivolgersi a tutte le parti contrapposte, e non solo ad una di esse, a meno che non sia evidente che i torti siano solo ed esclusivamente da un lato. C’è qualcuno, dotato di un minimo di coscienza, che possa sostenere che nel conflitto medio-orientale i torti siano tutti e solo di Israele? E l’argomento secondo cui ognuno dovrebbe fare pressioni presso i propri amici, ebrei con ebrei e arabi con arabi, non regge, per l’assoluta mancanza di par condicio: chi ha mai visto un appello arabo o islamico, a favore del dialogo e contro la violenza, rivolto a Hamas, Hezbollah, Iran ecc.?
2) Uno dei problemi più pesanti che fanno ostacolo a qualsiasi spiraglio di soluzione è, da sempre, l’atteggiamento assolutamente vittimistico, revanscista e vendicativo radicato nel mondo islamico, per cui ogni idea di pace passa unicamente attraverso l’espiazione di colpe, vere o presunte, di Israele e dell’Occidente, senza mai un briciolo di autocritica riguardo alle politiche violente e aggressive praticate dai vicini di Israele. È evidente come un appello “di ebrei” teso a fare cambiare la politica israeliana non possa che ulteriormente rafforzare la – già solidissima, peraltro – convinzione che gli arabi debbano soltanto attendere riparazioni, scuse, pagamenti e quant’altro, senza, da parte, loro, impegnarsi neanche in un minimo gesto di buona volontà. E ciò, piaccia o non piaccia, non potrà che allontanare ulteriormente qualsiasi prospettiva di pace.
3) L’appello si rivolge essenzialmente a un pubblico europeo, proprio in un momento in cui l’Europa sembra nuovamente quantomeno fredda verso le ragioni di Israele, si va profilando un pericoloso isolamento diplomatico internazionale di Gerusaleme e aumentano, in modo allarmante, in tutto il Continente, i segnali di intolleranza e antisemitismo (si veda l’ingresso nel Parlamento europeo di partiti politici dichiaratamente xenofobi e neonazisti, o l’impressionante diffusione dei siti antiebraici su internet). In tale contesto, una pubblica sconfessione del governo di Israele, presentata come “critica degli ebrei europei allo Stato ebraico”, non potrà che rafforzare tutti gli argomenti dei nemici e ‘antipatizzanti’ di Israele, che vedranno in essa una sorta di “prova del nove” delle colpe dello Stato ebraico, criticato ‘perfino’ dagli ebrei. Eloquente prova di tale atteggiamento, per esempio, un inquietante articolo di Sandro Viola su Repubblica del 5 maggio, in cui si attende la risposta di Israele all’appello come la dimostrazione netta e incontestabile della disponibilità o meno dello Stato ebraico ad accettare un percorso di pace, e si esprime il sinistro timore che un mancato accoglimento delle ragioni degli appellanti possa “servire da alibi ad una torva, odiosa – ma vasta, molto vasta – riapparizione dell’antisemitismo”.
Francesco Lucrezi, 13 maggio 2010