Davar Acher – Perché tacere?

Il severo esame critico che Sergio Della Pergola ha dedicato giovedì su questo sito a il mio “davar acher” di domenica scorsa, pur senza citarlo, mi ha lasciato qualche curiosità intellettuale, forse condivisa anche da qualche altro lettore per cui mi permetto di replicare con alcune domande e chiarimenti.
La prima curiosità per così dire aritmetica, riguarda un sondaggio, che l’illustre demografo cita così en passant, senza rivelarne la fonte, “svolto in ottobre in Egitto, Marocco, Giordania, Libano e Emirati del Golfo” che “rivela un sostegno del 67,5 per cento a favore di un accordo di pace con Israele”. E’ un dato spettacolare (due terzi degli arabi vorrebbero la pace con Israele) di cui non ho mai letto notizia, pur essendo un esploratore accanito di notizie mediorientali, e che contraddice molti altri sondaggi in cui Israele appare odiatissimo, e soprattutto non sembra affatto congruo con i risultati elettorali che provengono da questi paesi, dove prevalgono forze non solo esplicitamente anti-israeliane, ma spesso spudoratamente antisemite e nostalgiche del nazismo. Sarebbe interessante capire da quale fonte venga questo sondaggio, chi l’abbia commissionato, su quali domande si sia articolato e con quale livello di accuratezza e fra l’altro anche perché non se ne sia parlato, per quanto ne so. I sondaggi non sono oracoli, come i sociologi ci insegnano e vanno sempre esaminati con spirito critico, cercando di capire le cause dei loro risultati, soprattutto se non banali come questo. Soprattutto bisognerebbe capire che cosa hanno in testa quegli egiziani che votano per partiti impegnati ad annullare il trattato di pace e magari partecipano a cortei in cui si incita ad ammazzare gli ebrei e a distruggere Israele o quei tunisini che stanno per mettere in costituzione il divieto di ogni rapporto con Israele: davvero pensano che una pace dei palestinesi con i “malvagi occupanti” dell'”entità sionista” sia possibile? E sarebbero davvero disposti a rimangiarsi in quel caso il loro odio antisemita? Non so che cosa ne pensi il professor Della Pergola, ma qualche dubbio è lecito.
La seconda curiosità è più sostanziale. Avendo io argomentato che per molte ragioni concrete “la pace [fra Israele e i palestinesi] non è oggi nell’ordine delle possibilità reali, è una parola che ha solo referenza propagandistica”, Della Pergola mi risponde che “supponendo anche che questo sia vero, non è né astuto né redditizio dirlo da parte ebraica o israeliana”. Sarei curioso di sapere se quel “supponendo anche” significa che l’intellettuale politicamente più influente degli ebrei italiani in Israele crede o meno che vi sia oggi una prospettiva di pace e a quali condizioni. Ma non devo sperare che ce lo riveli, perché “non è astuto né redditizio dirlo”. La mia curiosità a questo punto aumenta, e si trasforma in perplessità. Perché bisognerebbe tacere?
Capisco che per ragioni di prudenza non si possa pretendere troppa franchezza da un leader come Netanyahu (che io, diversamente da Della Pergola, continuo a preferire alla confusa, insieme demagogica e lei sì reticente Tzipi Livni). Ma perché lui ed io, che siamo liberi intellettuali, servitori ex officio della verità o almeno delle posizioni che ci sembrano onestamente più plausibili, non dovremmo dire che la retorica della pace non serve a nulla, che bisogna prendere atto di essere immersi in una lunga guerra d’attrito, che il processo partito ad Oslo è stato un esperimento fallito? Beninteso, questo è ciò che penso io, posso immaginare che Della Pergola veda le cose in maniera diversa.
Ma se uno dichiara di proibirsi, per ragioni di opportunità di sostenere una certa posizione anche nel caso che essa sia vera, naturalmente anche una sua eventuale negazione di tale posizione apparirà meno convincente: ci può essere sempre il pensiero che non dica quel che pensa davvero, perché “non è astuto o redditizio dirlo”. Insomma, la reticenza degli intellettuali non aiuta né da una parte né dall’altra, fa solo perdere chiarezza e autorevolezza. Meglio prendersi il rischio di esporre con chiarezza le proprie convinzioni, sia pure al costo di dispiacere a qualcuno.
Ancora una domanda: perché non bisognerebbe felicitarsi del fatto che il governo israeliano non si sia lasciato sacrificare dall’amministrazione Obama sull’altare dell’ideologia terzomondista ma l’abbia convinta che era suo interesse non opporsi clamorosamente a Israele; che non si sia fatto imporre una maggioranza di governo diversa da quella uscita dal processo democratico; che abbia imparato a gestire bene flottiglie e marce provocatorie; che abbia saputo contrastare efficacemente l’iniziativa palestinese all’Onu; che non si sia sottomesso allo stile palestinese di non-trattativa con continui rilanci delle condizioni negoziali; che abbia deciso, in maniera dolorosa ma positiva, di pagare il prezzo della liberazione di Shalit? E’ “trionfalismo” questo? Non credo. Difficile negare, anche da parte di chi non lo trovasse simpatico, che Netanyahu ha giocato al meglio la sua partita (la nostra partita) con le carte difficili che aveva in mano. Non ha rotto e non ha ceduto, per usare una metafora sportiva ha tenuto la palla in campo. Ed è riuscito a far capire a molti la centralità della minaccia iraniana, come pure la mancanza di legami diretti fra rivolte arabe e politiche israeliane. Non è poco.
L’ebreo della diaspora secondo me ha il dovere di appoggiare Israele, di comprenderne le scelte e le politiche; non deve partecipare alla lotta politica israeliana ma essere soprattutto sempre solidale col suo popolo e il suo Stato. Dunque anche col governo democraticamente eletto. E per farlo, per essere utile, deve anche dire delle cose che in Europa non appaiono politicamente corrette, ma che alla maggioranza del pubblico israeliano sono ben chiare: che il processo di pace è stato un’illusione, che il mondo arabo non ha realmente accettato la presenza di uno Stato ebraico in uno spazio che considera solo suo, che vi regna un odio non genericamente anti-israeliano ma antisemita, nutrito assieme di antico razzismo islamico, di “antimperialismo” per cui Israele sarebbe il bastione dell’Occidente, di un’abbondante simpatia per l’antisemitismo europeo, dai “Protocolli” al nazismo (è caduto fra l’altro pochi giorni fa, il 28 novembre, senza grandi commenti, il settantesimo anniversario del molto promettente incontro che Amin Husseini, muftì di Gerusalemme ebbe con Hitler). L’intellettuale europeo della diaspora deve dire anche, ignorando l’astuzia e la convenienza, che la simpatia dell’Europa e dei “progressisti” per l’indipendenza palestinese è venata di antisemitismo e che la “neutralità” benevola di una parte minoritaria ma potente del mondo ebraico per la “lotta di liberazione” è un caso caratteristico di quel rimbalzo interiore dell’antisemitismo che si usa definire “odio di sé” e in definitiva è fuga dalle responsabilità collettive.
Su alcune di queste cose sono convinto che Della Pergola sia d’accordo e ho letto con interesse i suoi recenti interventi su questi temi. Ma perché distinguerle fra quelle che si possono dire e quelle che non è conveniente tirar fuori? Perché accreditare all’Autorità Palestinese una volontà o anche solo una disponibilità alla pace che palesemente, spesso esplicitamente non esiste? Perché far finta che sia ancora aperta una prospettiva di pace che se si fosse realizzata sarebbe stata molto bella, come erano belli i sogni di Buber e di Magnes negli anni Trenta, ma che non ha retto alla prova della storia? Perché non ragionare pubblicamente su cosa si potrebbe fare ora, oltre naturalmente a resistere, invece di far finta di credere a illusioni pericolose?

Ugo Volli