Memoria 3 – Anna Foa: Attenti ai rischi di istituzionalizzare quello che è stato
Delicatezza. Pudore dei sentimenti. I semi della Memoria si possono coltivare solo così. Lontano dai pressappochismi ignoranti e dalla bulimia dell’orrore. Lontano dal ricordo dovuto per rituale e dalla burocrazia che soffoca e paralizza.
Per Anna Foa, storica, docente all’Università La Sapienza di Roma, una delle più acute testimoni della realtà ebraica del nostro tempo, a sessant’anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz la memoria della Shoah rischia di smarrire se stessa. In una sorta di perverso gioco dell’oca la buona intenzione del ricordo, irrigidita dalle cerimonie e svuotata di senso, minaccia infatti di generare indifferenza e ostilità riportando la coscienza collettiva proprio lì dove si era partiti: alla casella del razzismo e dell’antisemitismo.
Anna Foa, in una recente intervista pubblicata da Moked la storica Annette Wiewiorka ha additato, tra i prodotti dell’estrema istituzionalizzazione della Memoria in Francia, la nascita di una vera e propria classe di “impiegati della Memoria”, di funzionari che hanno l’unico compito di presidiare il ricordo della Shoah. Come stiamo in Italia da questo punto di vista?
Questa della Wiewiorka è un’osservazione che mi ha colpito molto. In Italia il fenomeno non è certo visibile come in Francia, dove la presenza e le istituzioni ebraiche sono molto numerose e forti. Ma anche da noi non mancano i segni di un’istituzionalizzazione marcata. Ad esempio mi colpisce il fatto che a Roma vi sia un apposito delegato del sindaco per la Memoria. La Memoria va collegata alla vita. Istituzionalizzarla significa confinarla in un angolo, congelarla, privarla di impulsi progettuali per il futuro.
Un rischio non da poco, soprattutto se si considera che la genesi della Memoria anche in Italia non è stata semplicissima.
La costruzione della Memoria ha richiesto quasi 15 anni. Li ricordo bene quei silenzi, nei primi anni Cinquanta. A scuola non si parlava né della Resistenza né degli ebrei. Io sapevo dalle conversazioni in famiglia, dai libri. Ma non potevo condividere queste conoscenze né con i compagni né con gli insegnanti.
Anche da parte ebraica non è stato facile iniziare a parlare della Shoah.
Non era un elemento che poteva incitare alla ricostruzione. In quegli anni, in cui le energie erano tese alla sopravvivenza la tendenza era quella di soffocare il dolore. Era difficile parlare al mondo di quanto accaduto. E proprio questo era stato l’incubo di Primo Levi e di tanti altri internati nei lager: parlare e non essere ascoltati.
Poi è stato il momento della presa di consapevolezza.
La coscienza della Shoah ha avuto un’esplosione verso la fine degli anni Cinquanta attraverso la memorialistica e il teatro. Il Diario di Anna Frank, rappresentato a teatro da Anna Maria Guarnieri, fu visto ad esempio da centinaia di scolari. Un fenomeno notevole, se si considera che erano anni in cui le scuole non usavano andare agli spettacoli.
Fu un’esplosione contrassegnata da una forte emotività.
All’inizio sì. Poi iniziò l’opera della storia e dunque una fase d’indagine e di riflessione. Ma anche questa trovò non poca difficoltà, anche se il primo libro sull’argomento, “Il nazismo e lo sterminio degli ebrei” di Leon Poliakov, fu pubblicato in Italia già nel ’55. Ma per l’affermarsi di un filone specifico di indagine storica fu necessario attendere gli anni Settanta. La stessa minuziosa ricostruzione di Raul Hillberg, rimasta l’opera basilare sull’argomento, trovò inizialmente grosse difficoltà di pubblicazione negli stessi Stati Uniti. Non parlerei però di precise volontà di occultamento, piuttosto di una sorta di rimozione.
Il processo culmina nel 2000 con la nascita del Giorno della memoria.
La sua istituzione è stata un passaggio molto importante. Allora ne discussi spesso con mio padre, Vittorio Foa, che invece nutriva molti dubbi sui rischi di una progressiva burocratizzazione. Questa mia certezza è però entrata in crisi quando mi sono resa conto che questa ritualità stava diventando troppo istituzionale, che si rischiava di perdere di vista il fatto che la Shoah non è una questione dei soli ebrei ma un tema comune a tutti e che si andava esercitando una sollecitazione estrema della memoria, quasi una sorta di bulimia.
Negli ultimi anni il tema della Shoah in effetti è divenuto un vero e proprio genere: in letteratura, al cinema, in tivù. E spesso è divenuta terreno d’incontro anche politico.
Persino la memorialistica è divenuta un genere… Ormai la Shoah è diventata il tutto. E’ stata il grande trauma che ha segnato il Novecento. Da lì non si può tornare indietro. Il rischio è però che questa consapevolezza finisca per divenire il filtro unico con cui ci si occupa del mondo.
Allude al fatto che spesso la Shoah è pietra di paragone per altre tragedie?
Non c’è alcuno scandalo nel dire che la Shoah ha aspetti di grande somiglianza con altri genocidi. Trovo invece preoccupante che la nostra società abbia un rapporto così intimo con il dramma della Shoah, che la Shoah sia divenuto l’argomento che più interessa e più suscita dibattiti. Come se con quest’evento il mondo fosse cambiato e non si sappia ancora in che direzione si sta andando.
Neanche il mondo ebraico ha ancora trovato una linea comune nell’affrontare la Shoah.
Vi è conflitto tra una parte religiosa per cui l’ebraismo non va identificato con la Shoah ed è ebreo solo chi conduce una vita ebraica e i laici. Il laico fonda la sua identità sulla storia e tende a concentrarsi dunque sulla Shoah trascurando invece aspetti vitali e progettuali dell’ebraismo. D’altronde non è facile essere un popolo di sopravvissuti, soprattutto quando l’attacco è stato così violento.
Come si può controbattere all’eccessiva pervasività della Shoah?
Servono rigore e grande equilibrio per non perdere questo pezzo di storia ed eliminare le scorie e la sovrabbondanza. L’eccesso, penso ad esempio alle immagini di morte così spesso esibite negli incontri o nelle esposizioni, può divenire assuefazione con grande facilità. La mia esperienza di docente mi ha mostrato che non occorre invece mostrare cataste di morti per comunicare l’orrore. Dobbiamo riuscire a ritrovare il pudore delle emozioni. Senza cercare di cambiare il nostro interlocutore con la violenza dell’orrore, gettando dei semi con delicatezza.
Il Giorno della memoria va dunque ripensato?
Senz’altro. Se potessi toglierei le ufficialità, le approssimazioni e cercherei di parlarne in modo pacato. Suggerirei qualche lettura, Primo Levi innanzi tutto. Inviterei allo studio e alla conoscenza perché la Memoria si costruisce sulla base del sapere. Proseguire sulla strada attuale di proliferazione incontrollata del ricordo rischia di generare una grande stanchezza nell’opinione pubblica alimentando la rinascita di forme d’antisemitismo.
Daniela Gross
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