Memoria 5 – Alessandro Schwed Dobbiamo ricostruire le emozioni
La fine d’Israele. Le case e le vie che si svuotano mentre la natura e il silenzio inghiottono ciò che resta. Parte da qui, da quest’epilogo amarissimo, il dialogo con Alessandro Schwed sulla Memoria e i suoi rituali. Al venir meno dello stato ebraico lo scrittore e giornalista, penna satirica del Male negli anni Settanta con lo pseudonimo di Giga Melik, ha infatti dedicato il suo ultimo romanzo (La scomparsa d’Israele, 223 pagine, Mondadori editore) che narra una surreale controdiaspora a metà tra l’incubo e lo sberleffo. “Ho voluto proporre – spiega Schwed – ciò che in matematica è la dimostrazione per assurdo. Mi sono cioè chiesto a cosa poteva portare la distruzione dello stato d’Israele, invocata da così tanta parte del mondo arabo”. La risposta, per molti versi scontata, è “assolutamente niente”. “Ciò che è spinto dall’odio, dal terrore e dalla guerra produce solo devastazioni”, chiosa infatti l’autore. Parlare del collasso israeliano significa però misurarsi su un nodo altrettanto scabroso e cioè il modo in cui, dopo la Shoah, gli ebrei sono percepiti e vissuti dalla società circostante.
Alessandro Schwed, a ventanni, per un breve periodo, lei ha militato nel Manifesto. Come viveva, da ebreo, l’atteggiamento di certa sinistra italiana nei confronti d’Israele?
Negli anni Settanta quando il discorso toccava Israele calava il silenzio. E prima di parlare a suo favore si doveva esibire la patente di democratico, antifascista e via di seguito. Serpeggiava un’avversione, poi esplosa negli ultimi anni, all’idea che gli ebrei potessero avere un loro stato. Non mi ci ritrovavo. Lo strappo definitivo per me però è avvenuto pochi anni fa. E’ stato alla manifestazione del 25 aprile a Milano, quando ho visto tre vecchi partigiani della Brigata ebraica insultati e fatti oggetto di sputi da alcuni giovani rappresentanti dell’estrema sinistra mentre nel corteo si bruciavano le bandiere israeliane.
Fu un momento sconvolgente per molti.
Fu la rottura tra l’idea di un mondo libero, nato dalla Resistenza e dall’antifascismo, e la realtà.
L’avversione nei confronti d’Israele sembra contraddire una generale grande disponibilità alla Memoria della Shoah.
C’è una sorta di ricatto di fondo che aleggia ormai da trent’anni. Sono tutti pronti, anche se sempre un po’ meno, a stracciarsi le vesti per gli ebrei morti. Ma se gli ebrei sono vivi, vogliono fare i cittadini democratici, esserci e costruire allora il discorso cambia.
Siamo di fronte a una specie d’idealizzazione?
Il mondo vive gli ebrei in modo positivo quando sono proiettati in una sorta di esodo eterno, come se li amasse solo sulla carta. Ed è una percezione che viene profondamente messa in discussione dalla presenza dello stato d’Israele.
Le cerimonie dedicate alla Memoria, in certe loro formulazioni più rituali, rischiano di diventare parte di questa percezione. Non è che in quest’ultimo decennio da parte ebraica si è marcato troppo quest’aspetto?
Gli ebrei sono professionisti della memoria, sono “uomini d’aria”, sempre al centro di un contenzioso della storia. Al tempo dell’esilio di Nabucodonosor per conservare la memoria dell’esatta pronuncia della parole adottarono la punteggiatura sotto le lettere e così preservarono un aspetto prezioso della loro identità. E’ una storia piena di poesia, che ci riporta al grande valore attribuito dall’ebraismo alle proprie radici.
Non si rischia di diventare un po’ ossessivi?
So che vi sono persone che della Shoah hanno fatto una religione. Anche se l’ebraismo non è nato da lì ma lì è stato massacrato e polverizzato. Non si deve però dimenticare che l’ossessione ebraica della Shoah nasce dal fatto che quel massacro è proseguito lungo le generazioni nella devastazione interiore di chi l’aveva vissuto, nei figli e nei nipoti. Una delle tappe della Shoah è stata ad esempio la morte di Primo Levi, avvenuta così tanti anni dopo la guerra. Gli ebrei conoscono bene quel senso di accerchiamento terrificante. Non ci si può scagliare contro chi soffre. E per la Shoah soffriamo tutti.
Non c’è il pericolo che la ritualizzazione della Memoria finisca per annullare il ricordo di quanto è stato?
Sono contento che ci sia un giorno dedicato alla Memoria, non si sa mai cosa può accadere in futuro … Le commemorazioni, se isolate e private dei contenuti personali, possono però diventare vuote di senso. Dobbiamo dunque riuscire a operare per una Memoria vivente ricostruendo le emozioni di quanti hanno vissuto quel tempo, le ragioni della guerra, la Shoah. La sofferenza va spiegata nel presente come una cosa reale.
E per ciò che riguarda l’identità ebraica? Molto spesso la s’identifica tout court con la Shoah cancellando così secoli di storia e di vita.
Questo è un lavoro che dev’essere ordinario e quotidiano. Dovremmo riuscire a fare vedere l’ebraismo nella sua complessità parlando di cultura, teatro, musica, umorismo. Dobbiamo riconquistare la gioia, la capacità di danzare. E questo può accadere solo iniziando a coltivare profondamente l’idea della pace.
Daniela Gross
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