Memoria 9 – Marcello Pezzetti: “In Italia manca ancora una presa di coscienza”
Nel 1943 vennero deportati circa un quinto dei 45000 ebrei italiani, 9000 persone. Per quasi tutti la destinazione fu Auschwitz. Pochissimi tornarono.
Nel “Il libro della Shoà italiana” (appena pubblicato da Einaudi editore), Marcello Pezzetti, storico, esperto del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano (Cdec), collaboratore dello Yad Vashem, il museo della Shoà di Gerusalemme, e direttore del Museo della Shoah di Roma in via di realizzazione, vuole ricostruire la storia di questa tragedia italiana.
Questa sera, mercoledì 28 gennaio alle 20.30, al Teatro Dal Verme di Milano, la Giornata della Memoria sarà celebrata con la presentazione dell’opera in una serata organizzata in collaborazione con la Comunità ebraica di Milano, la Fondazione Cdec e la Fondazione Memoriale della Shoah di Milano. La manifestazione sarà introdotta da Ferruccio De Bortoli, direttore del Sole 24 Ore, e vedrà la partecipazione della Storica Liliana Picciotto storica del del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea e di alcuni sopravvissuti.
Il volume raccoglie le testimonianze di oltre cento sopravvissuti italiani. Trasmette, attraverso la loro voce, attraverso i loro dialetti, la storia di ciascuno, gli orrori a cui assistette e che subì, storie spesso raccontate con riluttanza, a volte con sorprendente ironia.
Professor Pezzetti, in cosa la Shoà italiana è diversa da quella del resto d’Europa?
I metodi utilizzati furono gli stessi dappertutto, ma ci sono tre importanti differenze.
La prima consiste nel fatto che l’Italia era un paese alleato della Germania, e quindi uno Stato che perseguitò autonomamente gli ebrei, preparando in questo modo il terreno alla deportazione. È importante sottolineare che essa non fu esclusiva responsabilità dei Nazisti, gli italiani collaborarono attivamente: più della metà degli ebrei italiani fu arrestata da italiani, non da tedeschi.
Inoltre gli ebrei italiani erano profondamente diversi dagli altri, soprattutto da quelli dell’Europa dell’Est, perché totalmente integrati nello Stato e nella società di cui erano parte. Essi si sentivano prima di tutto italiani, e mantennero una fiducia totale nelle proprie istituzioni. Per questo motivo erano più vulnerabili.
Infine è necessario ricordare che la deportazione in Italia fu tardiva. Quando il primo ebreo italiano giunse ad Auschwitz, dopo la razzia del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943, l’ottanta per cento degli ebrei polacchi era già stato ucciso.
Lei parla di deportazione tardiva. Questo è dovuto a casualità o a una tacita volontà dello Stato italiano di salvaguardare in qualche modo gli ebrei italiani, almeno fin dove era possibile?
È difficile dare una risposta. Gli storici non sono concordi su questo punto. Io sono del parere che occorra limitarsi ai fatti. Fin quando ci fu un governo stabile e Mussolini fu al potere, non è presente una logica di deportazione, nonostante l’internamento degli ebrei stranieri.
La situazione cambia radicalmente con la Repubblica di Salò, cioè quando viene stravolto il quadro politico e istituzionale dell’intero paese.
In una sua intervista al Corriere della Sera di alcuni anni fa, lei spiegò che è necessario analizzare le basi dell’antisemitismo diffuso in quel periodo come presupposto alla Shoà. Cosa pensa degli episodi di antisemitismo che hanno attraversato l’Europa nelle ultime settimane?
Il punto fondamentale dell’antisemitismo di quegli anni era il suo carattere istituzionale. Si trattava di un antisemitismo di Stato. Certamente esso si innestò su un humus antiebraico diffuso nella popolazione e presente in Europa da secoli, ma fu voluto, burocratizzato e realizzato dalle istituzioni.
Io penso che quello che emerge oggi sia frutto di una stessa base antisemita mai scomparsa, ma oggi viviamo in un’Europa democratica, in Stati di diritto, basati sull’uguaglianza di tutti gli uomini e sulla tutela dei valori e dei diritti fondamentali. Questa è la differenza essenziale.
Qual è la sua opinione in merito alla Giornata della Memoria?
Non deve diventare una celebrazione, perché ciò significherebbe perdere il suo significato autentico. Noi dobbiamo impegnarci affinché si diffonda la piena consapevolezza di quanto avvenne. Questo è particolarmente importante nel nostro paese perché l’Italia, a differenza di altri Stati, come la Germania, non ha ancora sviluppato una vera presa di coscienza sulla Shoà. Per vent’anni non se ne è parlato perché era necessario ricostruire materialmente e moralmente una società distrutta. In seguito ci si è concentrati sulle responsabilità degli altri, considerando la Shoà un affare tra tedeschi ed ebrei, come se questi ultimi costituissero un’entità senza nulla in comune con l’Italia, autoassolvendosi dalle proprie colpe. Da alcuni anni a questa parte qualcosa è cambiato e ci si muove nella direzione giusta.
Se il Giorno della Memoria diventa una celebrazione, rischia di fermarsi a livello simbolico e superficiale. Rimane comunque utile perché rappresenta un momento di riflessione, ma deve costituire solo la punta di uno studio molto più solido, che venga svolto prima di tutto nelle scuole.
Professore, lei per questo libro e nel corso di tutti i suoi studi, è venuto a contatto con storie di sofferenza indicibile e violenza inaudita. Non ha mai provato l’impulso di scappare da tutto questo, il desiderio di smettere di ascoltare simili atrocità, di chiudere gli occhi?
Assolutamente no. Non si può fuggire davanti a ciò che avvenne durante la Shoà, pur provando un enorme disagio e un dolore immenso.
La Shoà è una gabbia, una volta entrati è difficile uscirne. Quello che io continuo a domandarmi non è come uscirne, ma come si possa decidere di non entrarci.
Rossella Tercatin
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