Memoria 12 – Helen Epstein. Il trauma delle generazioni successive
“Sono figlia di due sopravvissuti ai campi di concentramento. I miei nonni paterni, i miei zii, mia zia e mio cugino sono morti ad Auschwitz. I miei nonni materni furono fucilati e gettati in un fosso a Riga. Spesso i dottori mi chiedono se nella mia famiglia c’è una predisposizione ereditaria al cancro o al diabete. Non lo so, come non so se il mio modo di fare allegro e la passione per il cioccolato dipendano da una predisposizione familiare.
Sono fortunata a sapere che aspetto avessero i miei parenti… Molti discendenti dei sopravvissuti all’Olocausto non hanno nemmeno una fotografia della loro famiglia”.
La giornalista e scrittrice Helen Epstein ha attraversato l’Italia in occasione dell’uscita del suo ultimo libro Di madre in figlia. Con Anna Foa ha tenuto una lezione all’Università La Sapienza di Roma. Nata a Praga nel 1947 e cresciuta a New York, è già molto conosciuta dal pubblico italiano per la sua precedente opera Figli dell’olocausto (La Giuntina). Ha studiato musicologia e giornalismo negli Stati Uniti e in Israele e insegnato in varie università americane. Ora scrive e vive a Boston. Il suo recente Di madre in figlia (Forum Editrice, 22 euro www.forumeditrice.it) ripropone non solo il suo complicato rapporto con la madre – deportata in un campo di concentramento – ma anche fotografie, riferimenti letterari e bibliografici. Nel testo che segue racconta Il trauma nelle generazioni successive.
“Ho portato con me questa foto di mia nonna Pepi perché è stata fonte di ispirazione per scrivere il mio libro Di madre in figlia. Fin da quando ero piccola, è stata appesa nell’atelier di mia madre e ha rappresentato la mia famiglia perduta. I miei genitori erano ebrei cechi assimilati, come gli ebrei italiani. Durante la guerra mio padre e mia madre furono deportati da Praga a Theresienstadt, poi ad Auschwitz e infine in campi dove lavorarono come manodopera servile.
“Quando tornarono a Praga nel 1945, erano gli unici membri della loro famiglia sopravvissuti alla Shoah. Si sposarono nel 1946. Io sono nata nel 1947. Mia madre era una stilista e gestiva una sartoria in Piazza Venceslao. Mio padre era un giocatore di pallanuoto, aveva partecipato alle Olimpiadi di Berlino nel 1936 e faceva parte della Comitato olimpico nazionale cecoslovacco quando i comunisti presero il potere nel 1948. Anche se dopo la guerra erano stanchi e non avrebbero certamente voluto lasciare Praga, mio padre era però certo che non sarebbe sopravvissuto ad un altro regime totalitario: quella stessa estate emigrammo a New York.
L’America è una terra di immigrati: irlandesi e italiani in fuga da carestie e miseria; asiatici, europei e sud americani in fuga da sconvolgimenti politici, discendenti degli schiavi africani catturati e trasportati via mare in nord America. Ogni gruppo aveva la sua lingua, i suoi cibi e quartieri. A New York ci sono molte comunità religiose: protestanti, cattolici, greco-ortodossi, armeni, buddisti, mussulmani ed ebrei. Così, a differenza degli ebrei europei, a New York non mi sentivo una straniera. Quello che percepivo erano le conseguenze del genocidio. I miei parenti erano stati assassinati, i miei genitori erano stati imprigionati dai nazisti perché colpevoli di essere ebrei.
“Molti loro amici – sia ebrei che non ebrei – erano stati nei campi di concentramento. Erano tormentati da incubi, flashback, malattie del corpo e della mente, solitudine. Vivevano sparsi per il mondo e avevano perso lingua, famiglia, lavoro, casa, posizione sociale e salute.
“La maggior parte di loro parlava diverse lingue: ceco, tedesco, russo, ungherese, polacco, yiddish – che riflettevano la varietà del loro passato politico, sociale e religioso.
Alcuni mantennero la propria identità ebraica, altri nel nuovo mondo cambiarono nome e religione. Alcuni sopravvissuti parlavano incessantemente dell’olocausto. Altri rimanevano in silenzio per proteggere i figli.
“Nella mia famiglia – come spesso accade, credo – mia madre parlava più di mio padre delle sofferenze che avevano patito. Mia madre parlava meglio l’inglese, era più eloquente del mio atletico padre. Quando ero piccola, mia madre ebbe un esaurimento nervoso e fu una tra i pochissimi superstiti che entrarono in psicanalisi. La maggior parte non lo fece.
“Ecco come la scrittrice olandese Carl Friedman riporta i discorsi del padre nel suo libro Come siamo fortunati: ‘vidi un film sul campo. Per colazione i prigionieri si friggevano un uovo.’ Si batte la fronte con il palmo della mano. ‘Un uovo’, esclama con voce stridula. ‘Nel campo!’
“Il campo è quindi un posto dove non si friggono uova. Dice: ‘Io ho avuto il campo’. Questo lo rende diverso da noi. Noi abbiamo avuto la varicella e la rosolia ma non abbiamo mai avuto il campo.
“E la scrittrice italiana Helena Janeczek su sua madre: ‘Non sono stata allattata al seno da mia madre e ho davvero una fame atavica, a una fame disperata da morti di fame, che lei non ha più. E’ tutto ciò di cui parlo, questa fame particolare ed ovviamente nevrotica… A volte strazio addirittura le croste dure del pane e non ne butto mai via una, neanche un po’, a volte mi spingo persino a raccogliere le briciole dalla tovaglia per mangiarle… è stata lei ad insegnarmi che il pane è sacro’.
I miei genitori usavano parole che non ho mai sentito nelle case americane: lager, koncentrak, kapo, appel. Raccontavano le loro storie con un tono di voce così bizzarro che non riuscivo a capire se esprimessero orgoglio, tristezza, vergogna, ansia, soddisfazione o dolore. Non c’era alcuna emozione in quei racconti.
“La storia che mio padre raccontava più frequentemente riguardava la fortuna e l’intuito. Ad Auschwitz gli avevano dato la possibilità di scegliere tra tre file: all’ultimo minuto si era spostato da una fila all’altra e si era salvato la vita.
Il racconto preferito da mia madre riguardava la decisione di mentire: mentre stava di fronte al dottor Mengele durante una selezione aveva detto di essere un’elettricista – e non una sarta come centinaia di altre donne – e in quel momento si era intelligentemente salvata la vita.
“Che influenza ha avuto questa esperienza sul loro modo di essere genitori? Erano genitori affettuosi? oppure erano arrabbiati, pieni di vergogna, distanti? Ogni sopravvissuto, come ogni essere umano, era diverso e così ogni bambino. Ma è comunque possibile fare qualche generalizzazione. La maggior parte dei sopravvissuti si è sposata poco dopo la liberazione in quelli che furono chiamati ‘matrimoni post-lager’ e volle subito dei figli. I figli sarebbero stati la prova del fatto che erano sopravvissuti, che ce l’avevano fatta, che Hitler non aveva vinto. Moltissimi chiamarono i figli con nomi di familiari uccisi dai nazisti sperando tuttavia che avrebbero avuto una vita migliore
“Il loro modo di essere genitori fu sicuramente influenzato dalle esperienze vissute durante la guerra ma anche da molti altri fattori: personalità, storia familiare, cultura, e la nuova condizione in cui si trovavano a vivere. La maggior parte di loro doveva spendere il proprio tempo e le proprie energie lavorando e adattandosi a una nuova lingua, un nuovo paese e le molteplici incombenze della vita quotidiana.
“Pensavano che l’olocausto si potesse ripetere? I miei genitori certamente ci pensavano spesso. Non rimasero in Cecoslovacchia a causa del regime totalitario che vi si era instaurato e non emigrarono nel nuovo stato di Israele. Mio padre non voleva ritrovarsi di nuovo a vivere in un piccolo stato circondato da vicini potenti ed ostili.
“In America i miei genitori si dimostrarono sensibili nei confronti dell’antisemitismo, del razzismo, della discriminazione sessuale. Mi hanno insegnato che un pregiudizio apparentemente superficiale può condurre al genocidio e che il genocidio ha tre elementi: chi lo compie, chi lo subisce e chi sta a guardare.
Per quel che ricordo, i miei genitori non mi hanno detto molto sul fatto dell’essere vittima o aguzzino, ma mi hanno spiegato chiaramente che non dovevo mai stare a guardare.
Entrambi sostenevano il movimento per i diritti civili negli Stati uniti e il movimento mondiale per i diritti umani. Mi hanno incoraggiato ad accogliere l’altro e ad essere particolarmente sensibile nei confronti di ogni tipo discriminazione. E io come reagivo ai loro racconti e alle loro opinioni? Avevo paura che ciò che era successo ai miei genitori potesse capire anche a me? Ero arrabbiata? Orgogliosa, mi vergognavo? Dipende dall’età.
Quando ero molto piccola – forse a tre anni- chiesi a mia madre perché aveva un numero sul braccio. Disse che ce l’avevano messo delle persone cattive e che non si poteva cancellare.
“Nessun’altra mamma aveva un numero blu tatuato sul braccio e la cosa non mi piaceva. Una delle sue amiche se l’era fatto rimuovere e ora al suo posto c’era una chiazza di pelle bianca. Nemmeno quello mi piaceva. Li faceva sembrare degli schiavi – cosa che in effetti erano stati.
Quando iniziai a fare domande su mia nonna, la cui foto era appesa nell’atelier di mia madre, mia madre disse che era morta e che delle persone cattive l’avevano uccisa. Era cattiva? Chiesi. No disse. Non ricordo di aver provato paura o rabbia, solo confusione e una serie infinita di domande. Perché? Perché? Perché?
Ascoltavo attentamente mia madre e interiorizzavo le sue riposte assieme al vocabolario e all’iconografia che usava, e ai suoi sentimenti espressi ed inespressi.
Quando vedevo un camino pensavo ai forni crematori. Quando viaggiavo su un affollato vagone della metropolitana a Manhattan immaginavo un affollato vagone-bestiame in Polonia, ma ero inconsapevole dei sentimenti che ciò mi suscitava.
“D’altra parte mi spaventavano gli uomini in divisa che impartivano ordini, mi sono sempre trovata a disagio tra la folla e non ricordo di aver mai creduto in Dio. I miei genitori non erano religiosi prima dell’olocausto e la guerra non li aveva incoraggiati a credere in Dio. Perdonare i nazisti era fuori discussione per loro. Ma non odiavano tutti i tedeschi. Sapevano che alcuni tedeschi avevano opposto resistenza, altri erano emigrati ed altri ancora erano solo bambini o non erano ancora nati durante l’olocausto (mia madre diede lavoro ad alcuni tedeschi)
“Non boicottavano i prodotti tedeschi e non serbavano rancore verso le generazioni successive. Nessuno di loro due era religioso o credeva in Dio prima della guerra, dopo di essa diventarono molto più critici nei confronti degli uomini di fede.
Sono cresciuta in America, a un oceano di distanza dall’Europa. Gli americani avevano sconfitto i nazisti, liberato i campi di concentramento, denazificato la Germania e condotto il processo di Norimberga. I media americani avevano svolto un ruolo importantissimo nel confermare e convalidare le esperienze dei sopravvissuti
“Come bambina ebrea americana, a differenza dei bambini ebrei nell’Europa postbellica, ero molto lontana dalla scena del crimine e almeno a livello conscio mi sentivo al sicuro.
Ma molte cose naturalmente erano inconsce e più sottili. Ho imparato molte tecniche di sopravvivenza a casa mia. La più significativa forse è quella di dissociare stimoli ed emozioni. Quando mia madre mi raccontava storie orribili, io capivo le parole ma non sentivo alcuna emozione.
Alcuni figli di sopravvissuti mi hanno rivelato di aver imparato ad identificare le emozioni durante la psicoterapia. Nella mia famiglia l’azione sostituiva il sentimento. Le situazioni andavano gestite all’istante. Agivo d’impulso, ogni azione era meglio che esitare. Raramente ho conosciuto il piacere di essere indecisa, fantasticare o oziare. Ero molto produttiva.
Ero estremamente consapevole dell’assassinio dei miei parenti e delle perdite subite dai miei genitori. La separazione mi sembrava simile alla morte e da adolescente non mi sono ribellata ai miei genitori, anche se erano i ribelli anni ‘60.
Andavo bene a scuola e ho iniziato a lavorare part time all’età di 14 anni. A 20, quando ero ancora all’università, ho iniziato a lavorare per un giornale. A 25 insegnavo giornalismo a N.Y. A 29 quando scrissi il mio primo libro lo intitolai Figli dell’Olocausto.
“Le tecniche imparate dai miei genitori si sono rivelate molto utili nella vita professionale, meno nella sfera personale. Anche se provavo molti sentimenti, non ne ero consapevole. Non mi rendevo nemmeno conto di avere scarsissima fiducia in qualsiasi cosa, incluso il futuro.
“Mi rifiutavo di accumulare beni materiali. Davo via i regali. Spesso mi bloccavo invece di reagire al pericolo, al dolore e perfino all’agitazione. Quando venni rapinata insieme ad un’amica nel nostro appartamento, ero così dissociata dai miei sentimenti che fui in grado di dare indicazioni al rapinatore.
Sentivo anche di essere bloccata nel tempo. Niente sembrava essere cambiato dall’infanzia alla vita adulta. I miei valori – che in realtà erano i valori dei miei genitori accettati in toto – rimasero rigidi e immutabili.
“Anche se mantenevo una facciata allegra, amichevole e felice, mi sentivo intrappolata dalla mia famiglia di origine, volevo distaccarmene ma non ne ero in grado, non riuscivo a creare alcun rapporto davvero intimo con qualcuno che non ne facesse parte.
Mio fratello minore ha preso una strada molto diversa. Le storie dei miei genitori lo impressionavano a tal punto che si rifiutò di imparare la loro lingua o di ascoltarli quando parlavano della guerra, rifiutò il loro cibo e i loro valori. Rinnegò tutto di loro e del loro passato come europei ed ebrei. Negli anni ‘60 entrò nel mondo della droga ed è stato fortunate ad esserne uscito vivo.
“Il primo articolo scientifico sul trauma e i figli dei sopravvissuti è stato pubblicato nel 1967 da uno psichiatra canadese. Oggi ci sono centinaia di articoli che esplorano queste idee. Gli effetti della Shoah includono l’impossibilità di elaborare il lutto, intorpidimento psichico, insolita protettività di figlio e genitore, difficoltà nella separazione e nella costruzione dell’individualità, difficoltà a fidarsi e a immaginare il futuro. Alcuni psicologi e sociologi sostengono che non si tratta di patologie, altri sostengono il contrario.
Non ho mai sentito il bisogno di sostenere una delle due teorie. Credo che l’olocausto abbia prodotto una speciale ‘cultura dei sopravvissuti’ di cui io e i miei fratelli facciamo parte. Anche di questo ho scritto nel mio primo libro molti anni fa.
Molti di noi sono scrittori e artisti. Molti altri ancora sono psicologi, psichiatri e insegnanti, oppure lavorano nel campo dei diritti umani, dei diritti civili e in molti gruppi politici che sostengono la tolleranza. Il libro che mi ha portato in Italia, Di madre in figlia, ne è una sorta di continuazione.
In molte famiglie di sopravvissuti la storia dell’olocausto ha soppiantato la normale storia familiare.
Volevo recuperare la storia familiare eclissata dall’olocausto e metterla in relazione con il mondo in cui vivo oggi: costruire un racconto storico che è iniziato prima dell’olocausto, lo ha attraversato, ed è infine riemerso. Non a caso discendo da tre generazioni di donne il cui lavoro quotidiano era cucire. Anche se io non cucio, l’impulso che sta dietro alla mia scrittura è stato spesso quello di raccogliere fili spezzati e impegnarmi in una sorta di tikkun, la parola ebraica per ‘rammendo’.
Il processo della scrittura è stato certamente terapeutico, una specie di guarigione. Ricreavo la mia famiglia perduta e la mettevo in relazione con me stessa. Ma soprattutto mi ha permesso di immaginare mia madre e il tipo di vita che aveva condotto prima che la il nazismo la cambiasse per sempre.
Scrivere Di madre in figlia è stata l’esperienza letteraria più gratificante che ho vissuto e mi ha portato al punto in cui mi vedete ora, in questo viaggio pubblico e personale intrapreso in relazione all’olocausto”.
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