Analfabeti
Su l’Unione informa di domenica 13 marzo, David Bidussa, a proposito delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, ricorda che “all’alba del 17 marzo 1861 la realtà del paese era 78 per cento di analfabeti con punte del 90 per cento in Calabria”, e che “il dato presente tra gli ebrei era conforme”. A proposito di tale annotazione, rav Gianfranco Di Segni, il giorno dopo, così commenta: “Immagino che l’amico David voglia dire che il 78 per cento degli ebrei, in media, era analfabeta. Sarà vero per l’italiano, non certo per l’ebraico, che sono sicuro gli ebrei dell’Ottocento conoscevano (almeno l’alfabeto) con punte del 90 per cento o superiori”. Una conoscenza che, lamenta Di Segni, sarebbe in forte calo, al giorno d’oggi, da parte degli ebrei italiani.
In realtà, anche relativamente alla conoscenza della lingua italiana, il dato riferito da Bidussa non appare credibile, per il semplice motivo che l’alfabetizzazione, sempre e dovunque, ha costantemente rappresentato un tratto ineliminabile dell’identità e dell’appartenenza ebraica, che ha sempre richiesto, come condizione imprescindibile, non solo la diretta e personale conoscenza delle Scritture, ma anche una compiuta scolarizzazione, quasi sempre molto superiore a quella dei gentili: basti pensare ai secoli bui del Medio Evo, quando l’Europa sprofondava nell’ignoranza e nella superstizione, e le Comunità ebraiche proteggevano, fra mille difficoltà, scuole, libri, cultura. Dopo la caduta del Secondo Tempio, com’è noto, la diglossia è andata gradualmente affermandosi in tutte le comunità della diaspora, indotte ad adoperare l’ebraico o l’aramaico per la lingua scritta (e, soprattutto, per le funzioni liturgiche), e l’idioma della nazione ospitante (greco, latino, arabo, slavo ecc.) per la lingua parlata e per le necessità secolari: ma ciò ha sempre imposto, dovunque, una piena padronanza, scritta e orale, delle lingue locali, per il semplice motivo che la comprensione dei testi sacri è evidentemente impossibile senza un assiduo insegnamento e studio degli stessi, che richiede ovviamente la piena capacità di lettura e scrittura nell’idioma usato quotidianamente.
L’esempio del Mezzogiorno d’Italia, evocato da Bidussa, da questo punto di vista, è quanto mai eloquente: nonostante l’altissima percentuale generale di analfabetismo, infatti, presso la Comunità ebraica di Napoli (l’unica, com’è noto, a Sud di Roma), non si serba memoria – anche per le epoche precedenti alla sua ufficiale costituzione, avvenuta solo dopo l’Unità – di un solo ebreo analfabeta. Altro esempio illuminante è quello degli ebrei etiopi, ricondotti in Israele, negli anni ’80 e ’90, con le tre operazioni dette Mosè, Giosuè e Salomone: vivevano in condizioni estremamente arretrate e primitive, non usavano elettricità e acqua corrente, né avevano notizia della Legge orale e del Talmud: ma conoscevano (e rispettavano) perfettamente la Torah, e leggevano, scrivevano e studiavano negli idiomi locali.
Certo, con la modernità e l’haskalà, è avvenuto che l’ebraico, in Europa e in America, sia stato in buona parte abbandonato, cosicché Primo Levi poteva scrivere che l’ebreo, prima della tragica esperienza della deportazione, era per lui “uno che ha studiato un po’ di ebraico a tredici anni, e poi l’ha dimenticato”. Ma, quando l’ebraico è stato dimenticato, ciò è avvenuto a vantaggio delle lingue moderne, non certo dell’analfabetismo.
In realtà, è molto difficile, se non impossibile, nei secoli, trovare un ebreo analfabeta, che possa ancora definirsi tale. Nei casi in cui ciò è avvenuto, c’è anche stato, inevitabilmente, l’abbandono dell’ebraismo, la fuoriuscita dal “popolo del libro”.
Francesco Lucrezi, storico