Shoah?

La nera lista dei luoghi dell’orrore, teatro di raccapriccianti eccidi di ebrei – turisti, bambini, religiosi, donne incinte, anziani… – si allunga sempre di più, fino a ricoprire l’intero globo di una lugubre rete di sangue, coinvolgendoci in uno sforzo sempre più difficile, sempre più impegnativo, di memorizzare località, date, numeri di vittime, inducendoci a cercare macabre analogie, a fare paragoni, celebrare ricorrenze, nel quadro di una sorta di orrendo “eterno ritorno”, di una plumbea galleria di sinistri “corsi e ricorsi storici”: Buenos Aires, Monaco, Roma, Mumbai, Eilat, Tolosa, Burgas…
Quando c’è stata quella strage, quando quell’altra? Lì morirono 85 persone, o solo 84? Quel posto è in Bulgaria o in Romania? E dove fu fatto saltare quell’autobus, dove fu sterminata quella famiglia? Non si può essere approssimativi o imprecisi con fatti tanto gravi, ma è così difficile ricordare tutto… Meno male che c’è internet… Ma poi, siamo sicuri che tenere una contabilità precisa serva a qualcosa? Si potrà, un giorno, presentare il conto esatto a qualcuno, chiedere “ora basta, per favore, si è già pagato un prezzo sufficiente”? Ma quale potrebbe essere questo prezzo? I sei milioni della Shoah sono stati sufficienti? Sembrerebbe di no.
“La memoria si satura, gli anniversari si sovrappongono”, scrive, in un triste, disperante contributo, apparso su questa newsletter lo scorso 22 luglio, Ugo Volli, e “ci ritroviamo con una terribile continuità a piangere persone uccise in quanto ebree”. “Una grande macchina dello sterminio di nuovo scalda i motori, misura la sua forza, si prepara ad agire”, tanto da obbligarci a prendere atto che “la Shoah non è mai finita davvero”. Sono vere, legittime tali asserzioni? O sono un’esagerazione? Al di là delle evidenti differenze quantitative, i morti di questi anni sono “altra cosa” rispetto a quelli del ’42-’45? O c’è un parallelismo, un’analogia, un’identità nel loro destino? E i carnefici di oggi in cosa somigliano, in cosa differiscono da quelli di ieri? Non c’è dubbio che sembrano molto diversi: parlano altre lingue (arabo, farsi, ma anche norvegese, inglese, francese…), non tedesco, indossano tuniche bianche, non camice brune, si dicono uomini di fede, non conoscono i miti di Sigfrido e le note del Tannhäuser… Ma quanto somigliano! E, soprattutto, quanto è simile, identico, l’atteggiamento, nei loro confronti, del “resto del mondo”, perennemente oscillante – fin quando è possibile, anche sull’orlo del baratro – tra i soliti atteggiamenti: noncuranza, paura, fastidio, incredulità… Tutto, tranne una sola cosa: la reazione, la lotta. Perché mai? Chi ce lo fa fare? Tanto, non riguarda noi, e poi, si sa, le cose si aggiustano da sole…
Ma si può davvero dire che “la Shoah non è mai finita davvero”? Nella mia nota pubblicata mercoledì scorso, 18 luglio, ho avuto modo di ricordare e criticare i giudizi sull’antisemitismo formulati da Hanna Arendt, rievocati, nel suo recente saggio, da Pierpaolo Punturello. L’asserzione di Volli sarebbe probabilmente respinta dalla Arendt, la quale mise in guardia contro concezioni dell’antisemitismo di tipo “eterno” e “metafisico”, utili, secondo lei, solo agli antisemiti stessi e a quegli ebrei che, in nome dell’eternità e dell’ineluttabilità dell’antisemitismo, cadrebbero nel vittimismo e nella mania di persecuzione, rifuggendo così dalle proprie responsabilità. Ma la Arendt è stata testimone della caduta del nazifascismo, e, come tanti, ha condiviso la speranza che le forze uscite vittoriose dalla guerra fossero portatrici di valori radicalmente diversi da quelli degli sconfitti, e che questi valori si sarebbero sempre più estesi e consolidati. Ha creduto alla possibilità di un mondo diverso, migliore, alla cui edificazione ha dato un personale, importante contributo. Ma, a quasi quarant’anni dalla sua morte, dobbiamo prendere atto che la storia ha preso un’altra strada. E la domanda, se la Shoah sia mai veramente finita, indipendentemente dalla risposta, può, purtroppo, essere posta.

Francesco Lucrezi, storico