La nostra Maturità – La prova di Ugo Volli
La conferenza di Wannsee e la preparazione della Soluzione finale, nelle parole di Hannah Arendt. E’ una delle tracce proposte quest’anno alle prove dell’esame di maturità per il tema storico. Un argomento complesso e delicato dalle implicazioni sia storiche sia filosofiche. Ma che significato ha uno spunto di questo genere? Quanto aiuta approfondire i meccanismi della Shoah? E in quali modi lo si può declinare? Abbiamo girato questi interrogativi ad alcuni dei nostri editorialisti, che in queste pagine si cimentano con la loro personale versione del tema di Maturità: una sfida non facile che ci aiuta a capire meglio.
Se il tema assegnato mi avesse chiesto semplicemente di parlare dello sterminio del popolo ebraico avvenuto in Europa fra il 1939 e il 1945, di ciò che si usa chiamare oggi Shoah, cioè catastrofe – molto più opportunamente del falsamente teologico Olocausto com’era definito questo evento in passato -, non avrei avuto difficoltà a farlo, nei limiti del tempo e dello spazio di un’esercitazione scolastica come questa. Avrei parlato delle premesse del genocidio, cioè della millenaria campagna di intolleranza nei confronti degli ebrei guidata dalla Chiesa, dei provvedimenti che limitarono la loro vita e la libertà di azione in limiti sempre più angusti e miserabili, delle stragi di massa più o meno spontanee che si scatenarono a partire dalle crociate, della cacciata dalla Spagna e del genocidio lento dell’Inquisizione. Avrei accennato all’accusa del sangue, e alle persecuzioni che ne seguirono. Sarei poi passato a discutere le trasformazioni dell’antigiudaismo antico durante l’Ottocento, con il passaggio, da parte laica e clericale da accuse di ordine teologico a imputazioni “scientifiche”, cioè sociologiche, economiche, politiche. Avrei citato i Protocolli dei Savi di Sion, l’antisemitismo diffuso nel movimento socialista, l’apprendistato di Hitler nella Vienna del sindaco cattolico Lueger. Avrei ricordato come in Mein Kampf il dittatore tedesco avesse già espresso diffusamente il suo programma di sterminio, senza essere preso sul serio da nessuno, neppure dalle sue vittime. Sarei passato infine al genocidio vero e proprio, con le Leggi di Norimberga, poi le stragi compiute in maniera sempre più sistematica dall’esercito tedesco nella sua avanzata a Oriente, la costruzione del sistema dei Lager, la “volonterosa collaborazione” della popolazione tedesca e di molte altre nazionalità, dai lituani ai polacchi agli ucraini, i casi più rari di rifiuto collettivo di collaborare allo sterminio (in Danimarca, Bulgaria), la posizione ambigua della Chiesa. Mi sarei soffermato sull’eccezione dei Giusti che salvarono gli ebrei a rischio della vita. Avrei cercato soprattutto di riflettere sulla posizione delle vittime, sulla degradazione che subirono, sui tentativi difficilissimi di trovare vie di fuga, sul blocco inglese al rifugio in Eretz Israel, sulle terribili condizioni di vita (e di morte) nei Lager, sulla geografia, la logistica e l’economia dei campi. Avrei parlato infine della difficoltà dei sopravvissuti a reinserirsi nella vita normale, anche dove non furono accolti da pogrom ai ritorni dai lager, come accadde secondo modalità assai diverse in Polonia e nell’Unione Sovietica, e di quella ancora maggiore di dare testimonianza e di convincere l’Europa a fare i conti con un crimine così fuori misura che non le era capitato addosso per caso, ma nasceva dalla sua storia e dalla sua vicenda intellettuale e sociale. Avrei concluso, se avessi potuto esporre sostanzialmente tutte queste cose, parlando della fondazione dello Stato di Israele, non solo come rifugio e speranza per i perseguitati, ma come sola seria garanzia che il genocidio non si ripetesse (e non si ripeta ancora oggi, come alcuni vorrebbero), o almeno senza una strenua e organizzata resistenza. Se il tema fosse stato solo limitato alla clausola conclusiva e se le forze mi avessero assistito a sufficienza, avrei dunque svolto così il mio lavoro. Ma il dettato ministeriale è più complesso, e chiede di parlare dello sterminio degli ebrei “prendendo spunto” dalla descrizione che Hannah Arendt diede della conferenza di Wannsee in cui fu decisa certamente non la “soluzione finale del problema ebraico” in sé, ma le sue modalità operative. In quanto studente che partecipa all’esame di maturità, e anche in quanto professore universitario di altra materia, non sono abbastanza specialista del campo per poter dare una bibliografia ragionata dei numerosi studi che si sono succeduti nei cinquant’anni trascorsi dal testo della Arendt sull’organizzazione sistematica delle stragi naziste e sul ruolo che vi ebbe la conferenza di Wannsee. Ma non occorre essere specialisti per sapere che il lavoro della Arendt non è l’ultima parola storiografica sull’organizzazione del genocidio, e del resto il brano prescelto da cui dovrei “prendere spunto” per parlare dello sterminio non aspira a scrivere un bilancio storico dell’incontro né tantomeno un ragionamento sull’organizzazione del genocidio, ma piuttosto riguarda i rapporti interni al gruppo dei massimi funzionari dello sterminio in quel momento e in particolare la promozione sociale dentro questo gruppo di un ufficiale di grado elevato ma inferiore agli altri com’era Eichmann, di cui si colgono dei tratti quasi caricaturali come la meraviglia nel vedere che anche i grandi capi delle SS bevono e fumano come comuni mortali. Dietro questa descrizione, che qualcuno potrebbe trovare irritantemente mondana, si cela il tema arendtiano della “banalità del male”: banale sarebbe lo svolgimento della conferenza burocratica in cui i diversi potentati del regime nazista si accordarono sul modo di suddividersi i compiti dello sterminio; e ancora più banale la festicciola dopo la conferenza: per questo evidentemente Arendt ne parla. Nella sua tesi esplicitamente polemica sul processo Eichmann, questa piccola cronaca ha senso. Ma è questo il modo giusto, o almeno fruttuoso, di parlare della Shoah nel suo complesso? Che funzionari e ufficiali di ogni esercito o governo tengano incontri organizzativi prima di ogni azione complessa, è abbastanza ovvio ed è altrettanto chiaro che in queste situazioni ci siano dinamiche sociali e psicologiche decisamente “banali”, secondo un formalismo dei gradi e del cameratismo particolarmente sviluppato in ambito militare e ancor più germanico. Due immagini mi vengono in mente a questo proposito, che purtroppo non posso riprodurre in un tema: una ritrae il brindisi fra gli ufficiali olandesi che dovevano difendere la cittadina bosniaca di Sebrenica e Slobodan Milosevic, al momento dell’abbandono del campo degli olandesi che avrebbe permesso la strage di tutti gli abitanti della cittadina; l’altra un rabbino polacco che, immediatamente prima di essere ucciso, dice kaddish per sé e per la sua comunità distrutta, e gli ufficiali tedeschi che lo circondano lo guardano con disprezzo e ridacchiano di fronte alla sua evidente povertà d’abbigliamento, sciatteria e concentrazione nel gesto “inutile” che sta compiendo. Da sempre gli alti gradi militari esibiscono una “distinzione” fatta di uniformi impeccabili, stivali luccicanti, sbattere di tacchi, saluti formali con la sciabola. Possono permetterselo, perché “dormono su letti di lana”, come dice una canzone della prima guerra mondiale; di solito non partecipano direttamente alla violenza della guerra, non portano armi offensive, al massimo una pistola per autodifesa, magari dai loro stessi soldati. Tutto ciò potrebbe naturalmente indurre a una riflessione sulla violenza e sulla cerimonialità del potere, ma non è per nulla specifico della Shoah. Che i capi delle SS a Wannsee si siano attenuti al cerimoniale militare, incluso il fatto di romperlo alla fine dei lavori e di ammettere al loro meritato riposo un inferiore diligente, non ci dice nulla sul senso della Shoah e neppure su ciò che essi volevano, pensavano e desideravano nell’organizzarla. Ci mostra una volta di più che il genocidio non è stato casuale ma organizzato, e che fu fatto secondo le consuete modalità del comando militare. Non dà però “spunto” rispetto allo sterminio, semplicemente testimonia che esso fu condotto da individui che tenevano alle forme militari e magari le usavano per umiliare ulteriormente e disprezzare vittime disumanizzate anche sul piano delle forme, orribilmente denutrite, vestite da pagliacci, deprivate da ogni forma. Il che non significa affatto, come sembra essere la tesi di Arendt, che i carnefici fossero “nient’altro che” degli oscuri burocrati che eseguivano automaticamente “il loro dovere”, stabilito da un “pazzo” come Hitler. Questa è esattamente la tesi difensiva dei nazisti, e il fatto che la Arendt vi aderisca senza porsi grandi problemi richiederebbe un’indagine approfondita sulla piega del suo pensiero che l’ha portata a questa posizione e sulle ragioni della sua popolarità. Se provassi a farlo qui, andrei fuori tema, e quindi me ne esimo. Voglio solo notare che vi è abbondante documentazione per dire che sotto le perfette uniforme e le cerimonie sociali degli ufficiali di Wannsee vi erano dei nazisti a tutto tondo, il cui antisemitismo era profondo e violento. Se in questo tema bisognasse cercare di dare ragione del crimine più orribile che abbia conosciuto la storia europea, si dovrebbe farlo smascherando il cerimoniale di Wannsee e cercando di capire quanto di non banale, di estremo e totalmente disumano avvenne in quegli anni; non le forme più o meno “corrette” di cui si avvolse.
Ugo Volli – twitter @UgoVolli (Pagine Ebraiche agosto 2012)