La nostra Maturità – La prova di David Assael
La conferenza di Wannsee e la preparazione della Soluzione finale, nelle parole di Hannah Arendt. E’ una delle tracce proposte quest’anno alle prove dell’esame di maturità per il tema storico. Un argomento complesso e delicato dalle implicazioni sia storiche sia filosofiche. Ma che significato ha uno spunto di questo genere? Quanto aiuta approfondire i meccanismi della Shoah? E in quali modi lo si può declinare? Abbiamo girato questi interrogativi ad alcuni dei nostri editorialisti, che in queste pagine si cimentano con la loro personale versione del tema di Maturità: una sfida non facile che ci aiuta a capire meglio.
Nel 1961 Hannah Arendt assisteva a Gerusalemme come inviata del New Yorker al processo EichmLa riflessione di Hannah Arendt, che sfocia nella tesi della banalità del male come categoria interpretativa della Shoah, ha senz’altro dei meriti per il richiamo alla responsabilità individuale nei confronti di qualunque regime totalitario. Anni fa sentivo una filosofa italiana, Laura Boella, che a lungo si è confrontata con il pensiero della Arendt, evocare l’immagine del contadino polacco del film documentario di Lanzmann, che si guarda la punta delle scarpe davanti alla domanda se non avesse sentito l’odore acre che veniva fuori dai camini dei forni crematori, come maggiore esemplificazione dell’idea della pensatrice tedesca. Immagine che può essere messa in relazione con i richiami di Eichmann all’imperativo categorico kantiano. Da più parti, però, ci si è chiesti se la formula arendtiana non sia troppo generica per rendere ragione della specificità della Shoah, che ricordiamolo, è uno sterminio che già nei suoi tratti più superficiali presenta delle peculiarità rispetto alle tradizionali macchine dei genocidi, anzitutto perché non si è trattato di eliminare lo straniero dalle proprie terre, semmai di portarcelo dentro per assicurarsi che nessuno sfuggisse all’eliminazione. Una volontà sterminatrice che non trova risoluzioni in ragioni locali, ma che sembra rinviare a una sfida cosmica fra due estremi, opposti fin dall’origine della storia. Il richiamo alla specificità della Shoah proviene, come era logico attendersi, anzitutto da parte del mondo ebraico. Scrivendo da queste colonne, fa piacere ricordare il numero di Pagine ebraiche dedicato al processo Eichmann, in cui, da testimoni di allora, viene ribadita la percezione di distanza fra la figura di Hannah Arendt e la sensibilità ebraica post Shoah. Con ciò, non vogliamo assolutamente unirci al coro di chi cataloga la riflessione della Arendt come espressione dell’odio di sé, perché qui si vanno a toccare i tessuti soggettivi delle persone, che possono essere conosciuti solo da chi li ha frequentati in maniera diretta. Riteniamo però utile sottolineare la necessità di riconoscere la specificità dell’azione nazista e non certo per partecipare a una macabra conta dei morti in cui vince chi ha subito più vittime, un esercizio che pure a volte si sente. È una sensibilità che non ricaviamo dallo sterminio subito. Concordo con chi sostiene di non tramutare una religione della vita in un culto della morte. E’ del resto la Torah stessa a considerare i genocidi subiti come elementi sì tangenti, ma esterni alla nostra storia, visto l’esiguo numero di passukim dedicati al periodo di schiavitù in Mitzraim. Semmai, il riconoscimento della peculiarità dell’odio nazista è un dovere dettato dalla cultura delle distinzioni che ci impone l’etica ebraica, già a partire dall’arcobaleno di Noakh, che riafferma un discernimento dopo il grande mischiamento del mobbul. E resta un imperativo nel seguito del percorso dell’identità israelita, mostrando, di volta in volta, le insidie implicite in questo orizzonte etico. Itzhak affronterà, in rapporto ad Avimélech, la condizione dell’ebreo della diaspora, che, vivendo da straniero in terra straniera, sarà sopportato finché non cresce troppo in ricchezza e influenza (Avimélech disse a Isacco: “Vattene da noi perché sei diventato troppo grande rispetto a noi”. Bereshit 26, 16). Lo stesso suo figlio Ya’akov, che svilupperà la consapevolezza della necessità della Terra proprio in conseguenza del trattamento ricevuto da Lavàn, il quale, incarnando già la figura del compagno di banco che diverrà filonazista, muta, da un momento all’altro, faccia e atteggiamento nei confronti dell’ebreo (e disse loro: “Ho osservato che i volti di vostro padre nei miei confronti non sono più come in precedenza”. Bereshit, 31, 5). Così come un compito specifico avrà Moshé nell’affrontare la mentalità imperiale del faraone. Commentando Bereshit 27, 3, Or Ha’- Haim sottolinea la distinzione fra keshet (arco) e sadeh (campo), sostenendo che il primo simboleggia la Grecia, per l’etica ebraica simbolo del rischio di assimilazione, il secondo Edom, che dunque ha connotati diversi. Edom è Esav, ossia la figura attraverso la quale si esprimono per la prima volta pulsioni di morte nei confronti di quello specifico percorso identitario rappresentato dall’ebraismo. Esav vuole uccidere il fratello perché il suo percorso etico prevedeva che la struttura sociale dove avrebbe avuto diritto alla primogenitura fosse scardinata. Esav è ciò che è stato sacrificato ad una prospettiva in cui “il minore comanderà sul maggiore”, sostituendo a una visione genealogica ciò che oggi definiremmo un paradigma del merito. È, questo, un odio ancestrale e costitutivo, che precede la storia, la quale, semmai, è sfruttata per raggiungere il suo fine. Il mondo ebraico nella Shoah ha riconosciuto quest’odio e negli occhi indifferenti dei nazisti che destinavano i bambini alle camere a gas non ha percepito la freddezza del burocrate, bensì ha scorto l’odio di Amalék, la tribù sterminatrice che discende da Esav e che forse è nata anche per una teshuvah incompleta da parte di Ya’akov, ossia di tutti noi. Lo ripetiamo, non si tratta qui di rivolgere una sterile critica alle parole di Hanna Arendt. Ci si chiede, però, se una tesi di chiara derivazione heideggeriana (il che aggiunge ulteriore ambiguità al tutto), sia adatta a interpretare la Shoah, e, cosa più importante se non si ritiene che la Memoria serva solo a occupare un giorno sul calendario, a favorire oggi un confronto con la specificità delle pulsioni che abitano la coscienza europea. Solo analizzando la composizione del nostro animo, capiremo la più autentica origine dello sterminio nazista, aprendo la possibilità di un nuovo modo di relazionarci all’Altro.
David Assael, Pagine Ebraiche, agosto 2012