La Memoria e i rapporti con la Chiesa
Anche quest’anno, come sempre negli ultimi tempi, sono stato invitato a partecipare a un paio di incontri commemorativi in occasione del Giorno della Memoria. A entrambe le manifestazioni, tra i vari relatori, è stato invitato anche un ecclesiastico. Due persone serie e preparate, che hanno espresso parole di sincera esecrazione per quanto accaduto e di sentita vicinanza al popolo ebraico. In entrambe le occasioni, però, il dibattito si è inceppato quando è stata sfiorata la questione del ruolo svolto dal Vaticano durante quegli anni, perché i due ecclesiastici, a differenza di alcuni degli altri presenti, non solo rifiutavano di riconoscere la benché minima ombra nell’operato di Pio XII, ma ne rappresentavano l’azione in termini di totale eroismo e abnegazione, mostrandosi decisamente offesi che qualcuno, per puro pregiudizio e malevolenza, osasse mettere in discussione un dato di fatto tanto evidente e incontestabile.
Tale situazione su ripete immancabilmente, come un copione fisso, e mette decisamente a disagio. Altre volte, ci si trova a litigare tra relatori che hanno idee diverse – a volte anche radicalmente contrapposte – sull’oggetto della discussione (per esempio, sulla questione mediorientale). Il dibattito può svolgersi civilmente o può anche degenerare, ma ognuno si sente libero, in genere, di dire la propria. In queste situazioni, invece, è diverso, giacché tutti i relatori, per lo più, vorrebbero esprimere una comunanza di intenti, un sentimento di unità e di comune impegno civile. Se il dibattito non tocca un determinato argomento, questo sentimento appare integro, e si ha l’idea che gli uomini di oggi siano davvero schierati, in modo unitario, a difesa dei valori di umanità e tolleranza. Se, invece, l’argomento tabù viene toccato, sia pure in modo marginale, l’incantesimo si spezza.
Che fare, quindi? Parlarne o non parlarne? Meglio forse non toccare il punto spinoso, per cementare questa unità di intenti, per sentirsi, o apparire, uniti? O piuttosto affrontarlo in modo aperto, per cercare di fugare ombre, equivoci, retropensieri? Nel primo caso, ci si sente ipocriti, pavidi, falsi. Facciamo finta di andare d’accordo, ma sappiamo che non è davvero così. Nel secondo, si appare indelicati, divisivi, dal momento che si urta la sensibilità di persone che vorrebbero esserti amiche, e che tu sembri invece volere respingere, o mettere in difficoltà (oltre tutto, in modo gratuito e inutile, poiché c’è l’assoluta certezza che, da quella parte, non verrà mai la benché minima correzione di giudizio).
Che fare? Non so rispondere. So solo porgere un’altra domanda: la Chiesa è un’istituzione umana (sia pure, per chi ci crede, ispirata da Dio), fatta da uomini, calata nella storia? E quindi soggetta anch’essa, come tutto ciò che è umano e storico, a errore, debolezza, contraddizione? O è sempre, in ogni suo atto, a qualsiasi livello, divina, perfetta, infallibile? E’ nel tempo, o fuori dal tempo? Se è fuori dal tempo, fuori dalla storia, allora analizzarne i comportamenti storici in un pubblico dibattito è del tutto fuorviante e inopportuno, come lo sarebbe dibattere su una verità di fede, con un credente che la difende e un non credente che cerchi di smascherarne la falsità: sgradevole, intollerante, offensivo. Se è nel tempo, nella storia, perché dovrebbe essere al di sopra di qualsiasi umano giudizio? Può esistere, nella storia, qualcosa di perfetto, assoluto, sovrumano, metastorico?
Francesco Lucrezi, storico
(30 gennaio 2013)