Omer – La festa della libertà

Oggi si conclude il conteggio di 49 giorni iniziato il secondo giorno di Pesach. Per la precisione, abbiamo contato sia i giorni che le settimane. Ad esempio, l’altro ieri abbiamo contato “oggi sono 48 giorni che sono 6 settimane e 6 giorni” e ieri sera abbiamo detto “oggi sono 49 giorni che sono 7 settimane complete”. A questo proposito, nel Talmud (Menachot 66a), è riportata l’opinione di Ameimar che “contava i giorni ma non le settimane, in ricordo del Santuario”. Rashì spiega che secondo Ameimar, visto che il precetto di contare i giorni dell’Omer è legato al Santuario di Gerusalemme, distrutto dai Romani quasi 2000 anni fa, non c’è bisogno di eseguire la mitzvà in modo completo e basta contare solo i giorni. Rav Soloveitchik, di cui abbiamo recentemente ricordato il ventennale dalla scomparsa, uno dei più illustri esponenti della scuola analitica dello studio del Talmud (la scuola di Brisk), si chiede: “Ma cosa gli costa ad Ameimar ricordare pure le settimane? Che fatica sarebbe aggiungere tre-quattro parole?”. E conclude che forse c’è un’altra motivazione dietro l’opinione di Ameimar. Le sue parole non vanno intese come se dicesse che “non c’è bisogno di contare le settimane”, bensì che “non si devono affatto contare le settimane”. E perché? Proprio per ricordare la distruzione del Tempio, così come facciamo in tante altre occasioni: per esempio, quando rompiamo il bicchiere sotto la chuppah (baldacchino nuziale), recitando il verso dei Salmi che dice “Se ti dimenticherò, o Gerusalemme, che si paralizzi la mia destra”. La nostra osservanza dei precetti, in assenza del Santuario, è incompleta e questo fatto va sempre tenuto presente.
Nella parashah (brano biblico) letta un paio di sabati fa, si parla di un altro conteggio, quello dei cicli di sette anni che si concludono con il Giubileo: “E conterai sette settennati, sette anni per sette volte, e saranno sette settennati, 49 anni… e santificherete il cinquantesimo anno e proclamerete la libertà nel paese per tutti i residenti, sarà il Giubileo per voi e ognuno tornerà al proprio possesso e alla propria famiglia” (Levitico 25:8-10). In ebraico libertà si dice “deròr”, dalla radice dur, abitare, perché ognuno può abitare dove vuole e non è sottoposto a vincoli di nessuno.
Stasera, festeggiando Shavuot, la festa delle settimane, che cade nel cinquantesimo giorno dopo Pesach, ricorderemo il Dono del Decalogo al popolo d’Israele e a tutta l’umanità. È interessante notare che anche le Tavole della Legge sono legate al concetto di libertà. Come dicono i Pirkè Avòt (6:42), non leggere “charùt”, inciso, al cap. 32:16 dell’Esodo, bensì leggi “cherùt”, libertà: non è libero se non colui che si occupa di Torah. Non c’è libertà se non nella Legge.

Gianfranco Di Segni – Collegio Rabbinico Italiano