5774 – Incontrarsi nella cultura

david bidussa sitoNell’estate 2006 lo storico Eric J. Hobsbawm nella sua lecture al festival di Salisburgo (il testo con il titolo Perché organizzare festival nel XXI secolo? è ricompreso nel volume “La fine della cultura”, Rizzoli, e si trova alle pp. 47-55) esordisce affermando che “La questione ‘Perché organizzare festival nel XXI secolo?’ non dovrebbe essere confusa con la domanda ‘I festival hanno un futuro nel XXI secolo?’”. E prosegue: “E’ evidente che ce l’hanno. I festival si stanno moltiplicando come conigli, il loro numero è aumentato in maniera vertiginosa a partire dagli anni settanta e nulla indica che il trend si sia interrotto.” Fin qui si potrebbe dire niente di eccezionale. In quelle pagine, tuttavia, Hobsbawm dice almeno altre due cose che a me sembrano avere una relazione con “Jewish and the City”, il festival di cultura ebraica che si terrà a Milano tra il 28 settembre e l’1 ottobre e che quest’anno è dedicato allo Shabbat. La prima. I festival si svolgono in luoghi marginali ai centri effettivi di produzione culturale nella nostra epoca. In breve non segnano la geografia della creatività culturale e dell’innovazione. La seconda. Le iniziative culturali, e i festival in particolare, richiedono un certo spirito comunitario. Perché è interessante questa doppia dimensione? Perché a me sembra che parli di ciò che potrebbe essere l’esperienza e il bilancio da trarre da “Jewish and the City”. Un primo elemento proprio che discende dalle osservazioni di Hobsbawm sta nel fatto che Milano non è un centro di produzione culturale ebraica nella nostra epoca. Non lo è in Europa (altri sono i luoghi della riflessione pubblica ebraica). Rispetto a Israele, indubbiamente Milano è un punto periferico. Non sto parlando delle singole individualità, bensì del peso oggettivo che il mondo ebraico italiano – non solo quello presente a Milano – ha nel sistema di produzione culturale attuale. Un secondo elemento proprio sta nel fatto che la realtà ebraica di Milano è anche attraversata da conflitti, da spaccature, che difficilmente sembrano oggi ricomponibili. Tuttavia proprio perché le iniziative culturali e i festival in particolare “richiedono un certo spirito comunitario”, qui sta la scommessa che ha un suo fascino e anche una sua valenza collettiva. Perché se è vero che dentro Milano ci sono molti mondi ebraici che talora coabitano, più spesso si sopportano, qualche volta s’ignorano e raramente s’incontrano, è anche vero che quella che potrebbe apparire come una crisi profonda ed essere percepita come l’inizio o la premessa di un processo di realtà liquida, non è meno profonda e significativa in una realtà urbana che ha lo stesso tipo di problemi. Da una parte c’è un insieme di mondi ebraici che devono trovare una strada per ritrovarsi e anche vivere insieme percorsi emozionali, prima ancora che culturali, che si costruiscono in un’esperienza del fare, prima che del parlare, dell’atto, prima che della parola. Dall’altra c’è una città che sia a livello istituzionale, ovvero il Comune di Milano, sia in alcune realtà di associazione privata e di fondazioni culturali, ha visto in “Jewish and the City” un’occasione per misurarsi con le sfide del presente e che stanno al centro di Expo. Uno dei temi di Expo, infatti, riguarda le forme della convivenza e della coabitazione in una città fortemente marcata dai conflitti, ma anche dall’imperativo di trovare una mediazione e un compromesso tra la necessità di essere smart city, dove la tecnologia si pone come innovazione e come sfida alle abitudini consolidate e allo stesso tempo esesre slow city dove deve prodursi un sistema di interazione democratica e inclusiva che tenga conto dei molti tempi di vita di tutti gli attori presenti nell’area metropolitana. Fin qui si potrebbe dire le sfide evidenti. Ma ce n’è una non meno profonda e non meno evidente che si porrà non solo in quei giorni ma soprattutto dopo, quando si tratterà di valutare se quell’esperienza sarà degna di ripetersi. Milano è una città che ha molti muri che godono di buona salute. Muri direttamente proporzionali alla quantità di paura vissuta e che spesso sono delle risposte, più che rappresentare delle soluzioni. Anche sotto questo profilo sarà importante valutare l’impatto che avrà “Jewish and the City”. Certo se il programma riscuoterà la simpatia, registrerà una buona partecipazione sarà un segno importante. Ma ancora più importante sarà se si creerà un clima in città, dove nessuno si viva come ospite, come “intruso”, ma sia consapevolmente parte di un progetto di dialogo, d’inclusione e anche di confronto Ovvero se i muri si abbasseranno almeno un po’. Sarà una risposta alternativa a chi pensa che il futuro sia disseminato di buone barriere da non oltrepassare. E sarà un modo per sentirsi non solo parte di una città, ma di contribuire al possibile sviluppo di una città, un po’ smart city, ma anche tenendo l’occhio per riuscire ad essere slow city.

David Bidussa, storico sociale delle idee
Pagine ebraiche, settembre 2013

(10 settembre 2013)