Jewish and the City – La sosta per la mente che ci manca
Nella Roma antica si celebrava il dies sobs il «giorno del Sole» in onore della stella che dà la vita e che rappresenta certamente la prima divinità della antropologia, della storia dell’umanità. Al Sole Roma ha dedicato anche il riposo settimanale su decisione di Costantino presa nel 321. Quando il Cristianesimo diventa religione di Stato questi significati passano al dies dominicus «il giorno del Signore». Lo proclama ufficialmente Teodosio I nel 383. La domenica, come festività settimanale dedicata al Signore, è diventata da allora il riferimento per l’Occidente, anche se alcune lingue mantengono la vecchia espressione: per l’inglese la domenica è il Sun-day, per il tedesco il Sonn-tag. Dopo dunque più di 17 secoli viene spontaneo chiedersi se abbia ancora senso il giorno del riposo, sia pure dedicato a Dio, quando la società è mutata radicalmente e i bisogni dell’uomo hanno subito una vera metamorfosi Basterebbe notare che il tempo presente pone drammaticamente il bisogno di lavoro per interrompere una inattività forzata dalla disoccupazione, basterebbe ancora guardare alla diffusione del jogging, delle marce, delle ginnastiche che tendono a rispondere alla preoccupazione di muovere il corpo che tende a rimanere immobile, fissato davanti agli strumenti digitali e alla televisione. La nostra è una società sedentaria e per la tecnologia, la muscolatura, su cui si fondava la forza, ha acquisito un significato soltanto per la bellezza. Ebbene, io credo che la domenica come tempo del riposo sia fondamentale oggi non per il corpo ma per la mente, che è la vera forza del tempo presente. E a preoccupare è la immobilità della mente, la stanchezza del pensiero, la rinuncia persino a porlo come controllore delle pulsioni. La nostra società è dominata da un empirismo estremo, da un agire che porta a scegliere senza una valutazione critica, come se anche le scelte dovessero tenere conto dell’immediato, del hic et nunc, come se il tempo che passa fosse il protagonista della nostra «fortuna», e lo si dovesse «prendere al volo». Serve un tempo per meditare:, non solo sulle scelte del quotidiano, ma sul significato stesso dell’agire e del nostro essere nel mondo. La nostra società ha perso la dimensione della introspezione, del guardarci dentro, del rapporto con la fragilità umana, con i limiti che sono parte del nostro stesso essere nel mondo: le malattie, la morte. Ungaretti in un bellissimo verso descriveva l’uomo «attaccato nel vuoto al suo filo di ragno». In un’epoca poi in cui domina il potere dell’uomo sull’uomo,. dell’homo homini lupus; in cui il denaro sembra aver preso il posto dell’ossigeno di cui abbiamo bisogno per respirare, è tempo di dedicare un giorno al senso dell’uomo e della società in cui viviamo, e certo dall’uomo e dai suoi limiti si arrivai anche al Dominus, al Signore, qualsiasi sia il significato che gli si pucb dare. Senza la meditatio mortis sii rischia di sentirsi immortali, come se il dio avesse il volto umano e di quell’uomo. Ecco, serve un giorno per pensare, magari insieme ad altri, un pensiero comunitario, e serve un tempo per guardare anche al cielo: Schiller ne «L’Inno alla gioia» diceva di cercare nel cielo perché da qualche parte si trova Dio. Albert Einstein poi scriveva «la nostra mente limitata è in grado di intuire che una misteriosa forza muove le costellazioni… Le leggi della natura manifestano l’esistenza di uno spirito immensamente superiore a quello dell’uomo e di fronte al quale noi con le nostre modeste facoltà dobbiamo essere umili». E di fronte a questi pensieri «domenicali» viene persino voglia di pregare il Dio che c’è e che forse non c’è. Si percepisce il bisogno di inginocchiarsi per far si che l’uomo non divenga un mostro. La domenica come giorno dell’Uomo e al contempo di Dio, poiché meditando sull’uomo ci si accorge di immaginare un non-Uomo, Dio. Ed è curioso che nei Vangeli Gesù si definisca ora Figlio dell’Uomo ora Figlio di Dio. Augurando un «buon riposo» non penso al sonno ma ad una veglia in cui la mente penetri il mistero di quel frammento di universo che ha i colori dell’umano.
Vittorino Andreoli, Corriere della Sera, 25 settembre 2013
(25 settembre 2013)