Jewish and the City – Nel cuore di Shabbat

corrierejcnlIn un passo de II libro delle interrogazioni, il poeta francese Edmond Jabès scrive: «L’Ebreo non sa che farsene/ delle nuvole, rispose Reb Jalé/ Egli conta i passi che lo separano dalla sua vita». Come sempre, è la poesia a illuminare le grandezze: in poche parole Jabès racchiude la straordinaria modernità del pensiero ebraico, quel suo farsi storia, il trasformare lo spazio in tempo, condensare il tempo stesso. E questo il senso profondo dello Shabbat, il Sabato, la festa del riposo, che secondo la legge si osserva dal tramonto del venerdì a quello successivo. E proprio lo Shabbat il cuore di «Jewish and the City», la prima edizione del festival della cultura ebraica, a Milano dal 28 settembre al i ottobre. Voluta dalla Comunità ebraica milanese insieme al Comune, vuole essere un’iniziativa «coraggiosa, emozionante, generosa», sintetizza Daniele Cohen, vice presidente e assessore alla Cultura della Comunità ebraica del capoluogo lombardo. L’obiettivo è andare al cuore di questa cultura antichissima, scavando nei suoi archetipi, cominciando dallo Shabbat. «Che aprirà il festival al Teatro Franco Parenti — dice Cohen — in un dialogo tra lo studioso Haim Baharier e Vittorino Andreoli. Non si parlerà solo della festa come riposo, ma anche del valore etico di questa norma». Che è modernissima: l’osservanza del sabato trasforma il sacro da luogo (il tempio, per esempio) a tempo. Storicizza la fede, per tornare a Jabès — non guardare le nuvole, ma conta i passi che ti separano dalla tua vita. Non solo. Come spiega Stefano Jesurum, scrittore, giornalista e membro del comitato promotore del festival: «In un mondo in cui la schiavitù consiste nel fare ininterrottamente le stesse cose, l’interruzione è una forma rivoluzionaria. Ecco allora che la dignità del riposo diventa la dignità del lavoro». E nella scintilla creativa del lavoro, l’uomo si affianca a Dio, perché «fa», «crea». E nella sua lectio magistralis (29 settembre), sarà lo scrittore polacco-francese, Marek Halter, a tratteggiare altri aspetti della modernità ebraica, nonché la sua profonda influenza sul pensiero occidentale contemporaneo. Argomento sterminato, letteratura vastissima. Nei suo celebre Radici ebraiche del moderno, Sergio Quinzio nota come sia stata proprio la contrapposizione tra la cultura ebraica e quella greca a plasmare l’identità dell’Occidente: dalla visione messianica è nato il pensiero utopico; la stessa nozione di «storia» deriva dal senso di un tempo senza ritorni, anima dell’ebraismo. «Ecco — continua Cohen — noi vogliamo che la profondità di questa tradizione, *** con la sua bellezza, arrivi a tutti. Che la nostra identità non sia associata sempre e solo a istanze politiche, come per esempio lo Stato di Israele e le sue vicende». Dietro questo mondo, c’è una storia infinita, c’è persino una mappa geografica interessantissima legata alla mobilità strutturale del popolo (ne parlerà, appunto, il geografo Franco Farinelli, domenica 29), una tradizione cinematografica che ha saputo congiungere due continenti, l’Europa e l’America, creando una nuova sensibilità artistica (Lubitsch, Lang e Lumet, solo per fermarci alla lettera «L»). E domenica interverrà il regista Amos Gitai, con la proiezione in anteprima del suo «The Book of Amos». Ecco un’altra caratteristica della modernità ebraica: l’aver saputo allargare gli archetipi, l’aver esteso dei concetti non solo all’ebreo in senso stretto (e soprattutto non solo in senso religioso), ma all’uomo in generale. «È il cuore dello Shabbat — dice ancora Jesurum —: è un riposo, un’interruzione che non concerne soltanto il fedele, ma si allarga, in senso etico, a tutti». E poi c’è l’affascinante aspetto della giustizia: la legge ebraica è norma morale, intreccia divieti e obblighi in un disegno metaforico che ricorda i quadri di Kandinsky. Questo tema verrà discusso domenica sera dall’ex magistrato Gherardo Colombo e dallo studioso di ebraismo Stefano Levi della Torre: come sanare lo scarto tra il divieto di agire e l’agire stesso su un piano propositivo? Le (apparenti) contraddizioni della legge, in- La guida «Jewish and the City» (28 settembre -1 ottobre) è promosso dalla Comunità ebraica di Milano, in collaborazione con il Comune di Milano, con la Fondazione Corriere della Sera e il teatro Franco Parenti e realizzato grazie al contributo di Eni, Intesa Sanpaolo, Fondazione Cariplo, Banca Popolare di Vicenza, Rigonfi di Asiago e altri somma. Senza le quali, però, non avremmo avuto la grande letteratura del 9oo: sessant’anni fa Saul Bellow scriveva Le avventure di Augie March e sulla scena letteraria statunitense arrivava l’ebraismo come identità problematica (e fondante) dell’autore. Da lì nascerà un’intera stirpe letteraria, nella quale spicca Philip Roth, con le sue magnifiche costruzioni narrative, dove l’assimilazione alla cultura americana diventa poesia (tra le affermazioni ricorrenti de II lamento di Portnoy, 1967, c’è «Conquistare l’America»). Questa ossessione del racconto, della parola, sarà centrale negli incontri in programma a «Jewish and the City». Con ospiti che vanno da Amos Luzzatto a Susanna Camusso (già, la dignità del lavoro sancita dallo Shabbat), da Filippo Timi e Erri De Luca a Andrée Ruth Shammah e Beppe Severgnini (lo Shabbat è anche disconnessione — temporanea — dai social network), dal Priore di Bose Enzo Bianchi, al direttore del «Corriere della Sera» Ferruccio de Bortoli, che il 1° ottobre condurrà un dibattito sulla Shoah. Coinvolgendo vari luoghi della città, dalla Sinagoga (con il Rav Alfonso Arbib o il Rav Roberto Della Rocca) alle sale della Fondazione Corriere della Sera. «Ci auguriamo — conclude Cohen — che questo sia l’inizio di una riscoperta delle nostre radici. Ma insieme alla città». Non da soli.

Roberta Scorranese
Corriere della Sera, 25 settembre 2013