Qui Milano – Jewish and the City al via
Al via nel finesettimana in occasione della Giornata della cultura ebraica la prima edizione del festival milanese Jewish and the City. Il Corriere della Sera di oggi mercoledì 25 settembre dedica grande spazio al tema, con un intervento, tra gli altri, del rav Roberto Della Rocca, direttore del Dipartimento educazione e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e direttore scientifico del festival.
Non è facile individuare una comunità umana che al pari del popolo ebraico interpreti il ritmo interno della propria esistenza come un fenomeno fortemente determinato dallo svolgimento del tempo. Il dipanarsi dei giorni, le scansioni dei mesi e delle solennità costituiscono la struttura portante attorno alla quale si sviluppa l’intera esistenza ebraica nella quale si distribuiscono in modo intellegibile gioia e dolore, attività lavorativa e cessazione di ogni azione creativa Nel corso dei secoli, accompagnato dalla memoria e dalla speranza messianica, l’ebreo ha individuato bella ricorrenza il punto di riferimento della sua storia, lo spazio sacro entro cui collocare la propria dimensione esistenziale. Grazie a questo rapporto sempre rinnovato con il tempo, il popolo ebraico itinerante nello spazio, lontano dalla terra di Israele e in particolare da Gerusalemme e dal suo Santuario, ha sviluppato una profonda coscienza storica e un forte senso di memoria collettiva creando alcune province della sacralità temporali, che possono essere osservate e celebrate dovunque. E proprio l’osservanza di questi «santuari del tempo», come vengono definiti dal filosofo A.J. Heschel (1907-1972), ha permesso all’ebraismo di preservarsi dall’estinzione e di non essere sorbito completamente dalle culture dominanti. A differenza delle civiltà impegnate a costruire nello spazio, come quelle egiziane, greche e romane, che esprimevano in magnificenze architettoniche le loro forme di culto e di identificazione, nell’ebraismo è prevalsa nel corso dei secoli, la santificazione del tempo. I giorni della settimana lavorativa, che si assommano monotonamente, ascendono passo dopo passo verso lo Shabàt, tanto che — secondo la cultura ebraica — non hanno nemmeno il diritto di fregiarsi di un proprio nome specifico, ma sono semplicemente enumerati come il primo giorno, il secondo giorno e così via: tanto da essere chiamati nel loro complesso con un’espressione che potrebbe essere tradotta con «i giorni di sabbia», in quanto difficilmente distinguibili l’uno dall’altro, proprio come i granelli della sabbia. Simbolo del diritto al riposo, ma ancora di più della necessità di tutelare la libertà e la dignità umana, il Sabato per gli ebrei significa un trasferimento dalla dimensione spaziale, regno delle cose concrete, dei rapporti produttivi ed economici nell’ambito del quale ci muoviamo durante i giorni della settimana, alla dimensione temporale, regno della vita spirituale. Tra le aspirazioni dell’osservanza dello Shabàt c’è quello di stabilire un limite al dominio dell’uomo sulla natura. In particolare l’osservanza del Sabato implica l’astensione da qualsiasi atto «creativo» che possa in qualche modo modificare la natura. È questa la motivazione per cui è proibito, per esempio, accendere il fuoco o utilizzare una macchina, atti entrambi che turberebbero il consueto svolgimento della natura. L’uomo per sei giorni lavora e si dedica soltanto a cose anaterial », in questo giorno, invece senza l’ossessione dell’attività produttiva deve dedicarsi a se stesso, alla comunità, alla società, per stare con i propri familiari e gli amici, a studiare e riposare. Se durante i giorni lavorativi l’uomo tende a vivere secondo le modalità dell’avere, in, un certo senso d’uomo è solo ciò che ha», nello Shabàt prevale la modalità dell’essere e d’uomo è ciò che è». Non si intende con ciò chiedere all’uomo moderno di rinunciare alla civiltà tecnologica, ma di riuscire ad esserne indipendente. Essere ebrei significa affermare il mondo terreno senza rimanerne schiavi. Non dobbiamo disprezzare il corpo, né sacrificare lo spirito. Senza lo spirito il corpo è un cadavere, senza il corpo lo spirito è uno spettro. Troppo spesso siamo corpi senza spirito tesi a consumare il tempo per guadagnare lo spazio, a controllare e dominare il mondo della natura credendo di essere dei creatori che non hanno da rendere conto a nessuno sopra di noi rendendoci schiavi degli oggetti che noi stessi plasmiamo. Oggi molti hanno raggiunto un alto grado di libertà politica e sociale, ma pochissimi non sono schiavi delle cose. Il nostro problema è proprio questo, come vivere con gli uomini e restare liberi, come vivere con le cose e restare indipendenti.
Roberto Della Rocca è rabbino, direttore del dipartimento Educazione e cultura dell’Unione delle comunità ebraiche italiane. Direttore scientifico del festival «Jewish and the City» Sinagoga I fedeli nella sinagoga di Milano, dove si svolgono Incontri aperti a tutta la città.
Roberto Della Rocca, rabbino
Corriere della Sera, 25 settembre 2013
(25 settembre 2013)