Qui Milano – Comunità italiane, quale presente, quale futuro
La struttura comunitaria italiana è in crisi? Come rispondere alla profonda evoluzione della società ebraica che ha avuto luogo negli ultimi anni? Quali le ricette per creare una maggiore condivisione in una Comunità variegata e complessa come quella milanese? Ha inaugurato ufficialmente la sua stagione affrontando interrogativi complessi il progetto Kesher, l’organizzazione guidata dal direttore del Dipartimento educazione e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane rav Roberto Della Rocca e coordinata da Paola Boccia, che offre incontri settimanali di tipo sociale e culturale.
La presenza a Milano di tre scuole ebraiche, la necessità di offrire maggiori occasioni di ritrovo ai giovani, i rapporti fra le organizzazioni, il moltiplicarsi di sinagoghe e strutture, alcuni dei temi affrontati dai relatori, rappresentanti delle istituzioni ufficiali, il rabbino capo Alfonso Arbib, il presidente della Comunità Walker Meghnagi, il vicepresidente UCEI Giulio Disegni (in sala anche il vicepresidente Roberto Jarach), così come di altre importanti entità ebraiche della città, rav Avraham Hazan del movimento chassidico Chabad-Lubavitch, Davide Nassimiha del Va’ad (consiglio) del Centro Noam, punto di riferimento della edah persiana, Sanino Vaturi, regolare frequentatore del Tempio Yosef Tehillot, fondato dalla comunità libanese.
“L’ebraismo italiano, con la sua rappresentanza unitaria, è strutturato in modo molto originale – ha introdotto la serata rav Della Rocca – Quando andiamo nel resto del mondo, e soprattutto nei paesi in cui l’ebraismo è organizzato per “congregations”, è possibile scegliere quale frequentare. Oggi ci chiediamo se il modello italiano funziona ancora e può continuare a funzionare in futuro. Ricordando che Milano è una comunica molto particolare anche nel panorama di questo paese, con la presenza di così tante edot e background diversi. E allora sorge spontaneo chiedersi anche che cosa possiamo fare insieme”.
A fornire per primo la sua visione della situazione è stato il rabbino capo Arbib, che ha innanzitutto esortato a ricordare che la Comunità di Milano non è fatta solo di problemi, che pure ci sono, ma anche di incredibile vitalità e di servizi importanti che costituiscono un patrimonio da non sottovalutare, in primis la scuola. “Io non saprei dire se la struttura attuale è in crisi o meno. Certo è ciò che oggi abbiamo, e io non mi sentirei di abbandonarla, né anche se lo volessimo, sapremmo con che cosa sostituirla. Si può invece lavorare per migliorarla, attraverso due strade, a mio parere. In primo luogo, sforzandoci di alleggerirla, di renderla meno burocratica. In secondo luogo, ricordando come non è tentando di andare incontro alle esigenze di tutti, che saranno sempre molto diverse, che si mantiene una comunità. Una comunità si deve reggere su quei tre pilastri che il Pirke Avot indica come i pilastri del mondo, Torah, avodah e gemilut chasadim, studio della Torah, preghiera e cura del prossimo. Senza questi tre elementi, non va dimenticato, non ci può essere comunità”.
Ed è partita proprio dalla cura per il prossimo l’analisi di Walker Meghnagi, ricordando l’importanza di aiutarsi a vicenda e l’essenzialità dei contributi degli iscritti per permettere alla Comunità di offrire ciò di cui c’è bisogno, compresa l’assistenza, sempre più richiesta, dei servizi sociali “Vorrei più comprensione da questo punto di vista – ha spiegato il presidente – e vorrei anche più partecipazione, di tutti, perché le cose che ciascun gruppo organizza sono meravigliose, ma non offriamo forse occasioni belle anche noi?” ha domandato, menzionando Jewish and the City, il primo festival di cultura ebraica del capoluogo lombardo appena concluso che ha visto, oltre a un’altissima partecipazione della cittadinanza, anche la presenza di tanti ebrei milanesi, molti dei quali solitamente poco inclini a frequentare gli eventi comunitari “Vediamoci più spesso!” ha concluso Meghnagi.
“Ricordiamoci sempre che una cosa sono le Comunità e una cosa sono gli ebrei. Per quanto riguarda questi ultimi, in Italia negli ultimi vent’anni ci sono stati dei grossi cambiamenti, mentre l’impressione potrebbe essere quella che le Comunità siano rimaste ferme – ha messo in evidenza il vicepresidente UCEI Disegni – Eppure dei movimenti ci sono stati. Per esempio la trasformazione dell’UCEI, che l’ha resa più vicina agli iscritti delle Comunità, attraverso vari elementi, la riforma dei suoi organi di governo, il giornale Pagine Ebraiche. Ma ci tengo a ricordare anche cosa sono state le Comunità nella storia dell’ebraismo italiano. Come nel ’45, non appena finì la guerra, esse si riorganizzarono con uno sforzo immane per aiutare tutti coloro che ne avevano bisogno. Come siano chiamate a svolgere così tante e fondamentali funzioni. Per questo io difendo ciò che abbiamo, che può essere senz’altro migliorato, ma non è superato”.
“Sono arrivato in Italia da bambino, e questa Comunità ha accolto me e la mia famiglia. Non ho mai pensato che ce ne dovesse essere una diversa. Chabad non vuole essere una comunità ma vuole essere al servizio della comunità e a contatto con le persone – ha spiegato rav Hazan – Penso che ogni occasione in più che esiste per incontrarsi, studiare, pregare, avvicinare, vada vista con favore, qualcosa che arricchisce questa Comunità, al di là del fatto che a ciascuno possa personalmente piacere o non piacere. Anche i rapporti tra le varie organizzazioni sono molto migliorati negli ultimi anni. Per questo bisogna essere positivi”.
“Il modello della Comunità è ancora valido? Sì e no – ha indicato Sanino Vaturi – Sì in alcune delle funzioni importanti che la Comunità svolge, dalla rappresentanza verso l’esterno ai servizi sociali, no se viene concepita come l’unico ente che possa erogare servizi religiosi, scolastici e culturali. Oggi viviamo in un’epoca fortunata in cui esistono e hanno spazio esigenze diverse. La Comunità non può che essere espressione della maggioranza, ma non di tutti. Per questo io considero sempre in modo favorevole le iniziative che sono in grado di soddisfare esigenze diverse”.
È partito invece dall’esperienza della kehillah persiana, non soltanto a Milano, ma anche nel resto del mondo e in particolare a New York Davide Nassimiha, ricordando come, se esiste una base di valori comuni e di rispetto reciproco, una stessa comunità possa racchiudere anche anime molto diverse “Al Noam per esempio abbiamo super religiosi e super laici, gente che viene per pregare e gente che viene per chiacchierare, ma tutti riconoscono il valore dello stare assieme – ha sottolineato – Dobbiamo chiederci cosa intendiamo per comunità, apprezzare ciò che dà quella di Milano, che è tantissimo, ma anche essere pronti a critiche costruttive per migliorarla”.
E a Milano, che da sempre si pone come un laboratorio di nuove tendenze, il confronto su queste tematiche non si esaurisce. L’auspicio espresso da molti è infatti quello di avere al più presto nuove occasioni di discussione, magari con un pubblico più amplio (la serata ha probabilmente scontato un po’ la vicinanza con Jewish and the City). Perché crisi o non crisi, il futuro comunitario passa anche dal ricreare o innestare un senso di appartenenza e partecipazione. Su questo sono tutti d’accordo.
Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked
(4 ottobre 2013)