Qui Milano – Via Guastalla resta più sola? “Lavoreremo perché non accada”
“Gira la voce che vogliamo chiudere il Tempio, ma non è assolutamente così. È una questione di uffici. Questo Consiglio ha utilizzato la sede di via Guastalla più di qualunque altro finora. E anche per il Tempio lavoreremo fino in fondo per il rilancio”. Il presidente della Comunità ebraica di Milano Walker Meghnagi ci tiene a esprimere il suo impegno a favore della sinagoga centrale e lo fa in un’intervista che apparirà nel numero del giornale dell’ebraismo italiano attualmente in fase di lavorazione. La decisione assunta dal Consiglio di spostare la sede dell’Ufficio rabbinico milanese nell’edificio scolastico ha infatti riportato in primo piano il dibattitto sul futuro del Tempio maggiore, sempre meno frequentato, cuore centrale ormai decentrato di una kehillah dall’identità complessa. A condividere i loro ricordi anche due testimoni d’eccezione, il presidente dell’Assemblea rabbinica italiana Elia Richetti ed Emanuele Cohenca, nato nel 1931, per molti anni leader della Comunità, che ancora ricorda la prima sinagoga distrutta nel 1943.
Sabato 28 aprile 1945. Un ragazzino e suo padre attraversano la città per tornare a fare ciò che facevano prima della guerra e della persecuzione: andare al Tempio per la Tefillah di Shabbat. Il tempio, il grande Tempio di via Guastalla 19, lo sanno, è distrutto: nel 1943 un bombardamento alleato che doveva colpire il vicino tribunale lo aveva raggiunto. Lo sanno loro, come lo sa il rav Ermanno Friedenthal anche lui uscito dal nascondiglio (e che sarà presto nominato rabbino capo della città). Eppure vanno lo stesso e si ritrovano lì, su quelle rovine, nel numero sufficiente per raggiungere il minian. Lo Shabbat della libertà. Oggi la decisione assunta dal Consiglio della Comunità ebraica di Milano di spostare la sede dell’Ufficio rabbinico nell’edificio scolastico riporta in primo piano il dibattitto sul futuro del Tempio maggiore, sempre meno frequentato, cuore centrale ormai decentrato di una kehillah dall’identità complessa: da grandioso simbolo dell’emancipazione alla distruzione della guerra, quando a essere sventrato non fu solo l’edificio, ma l’intera Comunità ebraica, dalle leggi razziste e dalla deportazione, dalla clandestinità e dalla fuga di chi cercava di scamparvi. Poi la ricostruzione e la rinascita. Infine il progressivo spostamento della vita comunitaria verso la lontana zona di Bande Nere e Piazza Tripoli, dove negli anni ’60 si inaugura la nuova scuola della Comunità. Per il Tempio centrale inizia un lento declino, mentre distanti fioriscono sinagoghe e centri di vita ebraica, spesso espressione dei tanti ebrei espulsi dai paesi musulmani che si stabiliscono in città e rimodulano la kehillah milanese, con la popolazione di rito italiano che si assottiglia e frequenta sempre meno. A raccontare la rinascita del Tempio nel dopoguerra è Emanuele Cohenca, il ragazzino che, nato nel 1931, quel giorno di primavera del 1945 era lì in via Guastalla 19 e che era presente anche alla grande festa di riapertura del Tempio ricostruito nel 1953. “Di quel momento non ho particolari ricordi, se non il fatto che in Comunità la gente, nonostante la soddisfazione, brontolava anche, perché trovava la nuova sinagoga ‘troppo moderna’ e parlava con nostalgia della precedente” racconta. Già, la precedente. Ultimata nel 1892, su progetto di uno dei più illustri architetti milanesi dell’epoca, Luca Beltrami e inaugurata pochi giorni dopo Rosh HaShanah 5653. La Comunità di Milano, nata solo all’inizio dell’Ottocento ma sempre più fiorente, contava allora duemila iscritti, fieri di poter finalmente contare su un luogo di culto non più nascosto, ma prestigioso e artistico, come racconta il volume dedicato al Tempio realizzato nel 1997 da un comitato esecutivo presieduto dall’allora rabbino capo Giuseppe Laras con il coordinamento editoriale di Annie Sacerdoti, Luigi Giannuzzi e Lucian Comoy, in occasione della ristrutturazione del complesso grazie alla generosità di due benefattori. Il signor Cohenca ricorda qualcosa anche di quella sinagoga ottocentesca. Suo nonno, Aristide Calef, ne era stato parnas (“I parnassim in occasione delle feste portavano la tuba e la marsina, e alle officiature partecipava il coro, composto sia da uomini sia da donne. Io facevo anche parte del coro dei bambini”). La nuova Sinagoga (che mantenne però, salvandola, la facciata originale), fu invece realizzata dagli architetti Manfredo D’Urbino e Eugenio Gentili Tedeschi, con un’impronta razionalista. “Sarà innanzitutto un’opera decisamente, integralmente moderna, come impostazione concettuale, come sensibilità delle strutture e dei materiali, come sforzo di raggiungere una caratte rizzazione funzionale, come rigore di atteggiamento critico nei confronti della superstite facciata – scrissero gli architetti – Quest’ultima infatti è da noi considerata come un (…) documento di qualche cosa che è stato, di una tragedia che si è abbattuta sull’ebraismo, di una continuità tenace proiettata verso il futuro”. E infatti, dopo il 1953, il Tempio torna a rappresentare il cuore della vita comunitaria. In quel complesso si trova non solo la sinagoga (all’epoca se ne contavano solo un paio a Milano, di rito ashkenazita, mentre nel 1954, sempre in via Guastalla, aprirà anche l’oratorio sefardita, poi noto come “Tempio di sotto”), ma anche gli uffici della Comunità, l’Ufficio rabbinico, la distribuzione dei pacchi di generi alimentari organizzata dall’associazione americana Joint. La Comunità gravita laggiù, come ricorda un altro testimone d’eccezione, rav Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana, e soprattutto nipote di rav Friedenthal, che in qualità di rabbino capo, abitava nel complesso della sinagoga, in un appartamento che anni dopo diventerà dimora della famiglia dello stesso rav Richetti, nei suoi anni da vice di rav Laras. Tempio e casa del nonno per il rabbino nato nel 1950, rappresentano innanzitutto un’unica felice memoria di infanzia (“Era un posto di vita, sempre molto frequentato” ricorda), poi il luogo del primo approccio con il mondo del lavoro negli anni ‘70, come impiegato dell’Ufficio rabbinico sotto il magistero di rav Elia Kopciowski, dopo la scomparsa dell’amato nonno Ermanno, periodo in cui studia anche per ottenere il titolo di rabbino e impara i tanti compiti che a un rav sono richiesti, dalla conduzione delle tefillot all’officiatura di matrimoni e funerali. Infine il ritorno a Milano, molti anni dopo, nel 1989. Di fronte alla prospettiva del trasferimento dell’Ufficio rabbinico rav Richetti esprime un po’ di tristezza: “Via Guastalla rappresenta la storia della Comunità di Milano, ma purtroppo non ce n’è molta coscienza. So che oggi la situazione è difficile e il Tempio è poco frequentato, ma temo che questa decisione rappresenterà un ulteriore colpo” spiega, ammettendo però che è difficile trovare una soluzione per rilanciarlo. La sinagoga centrale rimane senz’altro il luogo che la città di Milano continua a identificare con la Comunità, come testimonia l’interesse dimostrato per appuntamenti come la Giornata della cultura ebraica e Jewish and the City. Ma esiste anche una grandissima parte della Comunità che considera ancora via Guastalla il suo Tempio, il luogo dove pregare e ritrovarsi, almeno nei giorni più sacri dell’anno, Rosh ha‐ Shanah e Kippur, quando si registra sempre un’altissima affluenza. Molti si chiedono se per rilanciare il Tempio della rinascita, non sia necessario partire da lì.
Rossella Tercatin
Cohenca: “Una famiglia a Milano”
Ci sono le riproduzioni di fotografie e documenti. Ma soprattutto la narrazione delle memorie di una “famiglia ebrea a Milano” come recita il sottotitolo di “Fate largo che passa Mordekhai”, il libro con prefazione della storica della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea Liliana Picciotto in cui Emanuele Cohenca narra le vicende della sua famiglia dall’arrivo a Milano del padre Marco (Mordekhai in ebraico), ebreo di origine turca, all’inizio degli anni ’20, fino alla fine della seconda guerra mondiale. Dalla deportazione, la famiglia Cohenca (oltre ai genitori, Emanuele nato nel 1931 e la sorella Lina nel 1934) si salvò miracolosamente, grazie all’aiuto di persone che vennero poi, tanti anni dopo, riconosciute come “Giusti tra le Nazioni” da Yad Vashem: i coniugi Ghelli e Guelfo Galvani. Della storia di via Guastalla, così come di quella di tutta la Comunità di Milano, Emanuele Cohenca è un testimone unico. Ricorda la solennità delle cerimonie degli anni ‘30 in cui i parnassim indossavano tuba e marsina, la riapertura nel 1953 e in quel Tempio si è anche sposato. “Mi piace ricordare i festeggiamenti per Simchat Torah in cui si portavano i Sefarim in processione mentre i più giovani camminavano con un cero acceso in mano. Era solenne, molto diverso dalla gioia un po’ sfrenata che ho trovato in altri Batei Knesset. Forse l’ideale sarebbe stata una via di mezzo” spiega sorridendo.
Rav Richetti: “La casa del nonno”
“1953. È per la nostra famiglia un anno denso di avvenimenti. Il primo è la nascita a Rovigo di Bruna, la primogenita dello zio Giulio e della zia Silvana, il 19 aprile. ….. Quasi nello stesso periodo, a Milano, ci fu l’inaugurazione del Tempio di via Guastalla, ricostruito il stile moderno dopo le distruzioni causate durante la guerra da uno spezzone incendiario destinato al Palazzo di Giustizia. In via Guastalla si trasferirono anche gli uffici della Comunità e l’ufficio rabbinico, ed anche l’abitazione di mio nonno, Rav Ermanno Friedenthal, il Rabbino Capo.
È strano: della casa dei nonni in via Ariosto non ho memoria alcuna, salvo un’aiuola con piantine lungo il muro del cortile, protetta da archetti in ferro (oggi non ce n’è più traccia), mentre ricordo con una certa precisione l’edificio di via Unione ed il suo Tempio.
Ma il Tempio nuovo (allora) di via Guastalla era completamente diverso.i banchi, marroni anziché neri, erano più luminosi di quelli di via Unione, ed una chiara luce gialla entrava dai grandi finestroni zigrinati, riflessa dal mosaico in vetro e in foglia d’oro che circonda l’Aròn. C’era anche una boiserie sotto i finestroni del piano terra, e di legno era il corrimano che circondava il matroneo lungo muro; nella boiserie sotto e nel muro sopra alcuni fori servivano per inserire la manovella con la quale si aprivano e chiudevano i finestroni. I muri erano di un colore crema leggero mentre il soffitto e le travi del matroneo erano in un cemento grigio molto freddo. A dare un po’ di calore erano le colonne che sorreggevano il matroneo, in granito chiaro a base quadrata, con una forte rastremazione dal matroneo fino a metà altezza, ed rastremazione inversa da metà a terra. Le colonne flottavano su cuscinetti d’acciaio alle due estremità, per motivi antisismici. La balaustra del matroneo, della Tevà e dell’Hekhàl era in lastre di alabastro rosato, sorrette da da guide in ferro nero celate da profili in ottone e sormontate da un corrimano in legno.
Il pavimento della Tevà e dell’Hekhàl era in lastroni rettangolari di marmo candido. Il tavolone della Tevà, in legno color noce, era affiancato da due reggiséfer doppi in legno, ferro nero, ottone e panno rosso imbottito, affiancati da due portarimmonìm in ferro nero e ottone con basamento in granito bianco. Ai due lati del tavolo della Tevà, due mensole rotonde sorreggevano due lampade fiorentine completate da lampadine, che aggiungevano luce ai quattro grandi lampadari al neon in ferro nero e ottone (ben dodici neon ognuno) che pendevano dal soffitto, uniti da sbarre oblique in ferro nero. Anche sotto il matroneo c’erano lampade circolari al neon nello stesso materiale, incastonate in nicchie rivestite di mosaico in vetro e oro.
Sul fondo, a nascondere il portone principale c’era una bussola in vetro trasparente, celata da tende beige; generalmente il passaggio vìcentrale della bussola restava chiuso, e si passava dalle porte basculanti laterali. Sull’Hekhàl, a sinistra guardando l’Aròn c’erano due alti troni in legno e panno rosso imbottito, con davanti un banco doppio, mentre dirimpetto, sul lato destro, c’era una fila di tre sedili in legno collegati ad un banco a tre posti. Ai due lati dell’Aròn, sulla parete di fondo, due porticine conducevano rispettivamente all’ufficio rabbinico ed allo spogliatoio dei chazzanìm. Le porte dell’Aròn erano dipinte in oro, e su di esse erano applicati pezzetti rettangolari di legno in verticale ed in orizzontale. Successivamente, siccome l’insieme, visto da lontano, dava l’impressione di una serie di croci, gli elementi orizzontali furono fatti sparire. Il Paròkheth era interno, e solo successivamente fu spostato all’esterno, come pure solo successivamente (direi nel 1956) le lampade fiorentine della Tevà furono sostituite da due alte menoròth argentate moderne, il cui lume centrale era sostituito da un Maghèn Davìd (sono le stesse esistenti tuttora).
A sinistra in alto, sopra la porta d’accesso al matroneo, c’era la gabbia del coro e dell’organo: una struttura in ferro nero e ottone chiusa da tendine veneziane celesti, mentre le canne dell’organo erano su una mensola ad essa parallela, chiusa da un’armadiatura in legno. Inizialmente il coro era misto (uomini e donne), ma molto presto, accogliendo la prima interrogazione di un ebreo ashkenazita religioso, mio nonno lo rese solo maschile.
Nel seminterranto, accanto ad una sala per conferenze e simili, c’era quello che era allora chiamato “il Tempio invernale”, molto meno ricco di quello superiore ma ornato da un bell’Aròn, che era parte di uno splendido Aròn barocco di Pesaro: di questo, l’armadio e la balaustra furono sistemate lì, mentre le colonne che sormontavano la balaustra e la cupola soprastante erano state spedite in Israele, a Netania. All’epoca questi scempi non facevano notizia; ma maggiore fu lo scempio successivo: passato in gestione all’Oratorio Sefardita Orientale nel 1954, negli anni Settanta o Ottanta il Tempio fu ristrutturato, la balaustra sparì non si sa dove, e l’Aròn venne smontato e applicato in orizzontale su un muro di granito scuro, mentre le porte venivano fuse con quelle sottostanti per creare un portale per l’accesso ad un Aròn a stanza, anziché ad armadio!
Al primo piano dell’edificio di via Guastalla c’erano gli uffici della Comunità, ai quali si accedeva da una porta la cui targhetta portava la scritta “AVANTI”, e perciò io chiamavo quei locali “gli uffici dell’AVANTI”, senza sapere che ciò richiamava piuttosto il giornale del Partito Socialista Italiano”.
Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana
Italia Ebraica, ottobre 2010
(13 ottobre 2013)