Il tempo come variabile dipendente dal proprio Ego
Le recenti dichiarazioni di Silvio Berlusconi, nelle quali ha affermato che “i miei figli dicono di sentirsi come dovevano sentirsi le famiglie ebree in Germania durante il regime di Hitler. Abbiamo davvero tutti addosso” hanno sollevato, com’era prevedibile, un vespaio di polemiche. Tutte plausibili e, per buona parte, sottoscrivibili. La mancanza di cautela – per usare un cortese eufemismo – peraltro appartiene al personaggio. Le similitudini iperboliche non costituiscono una sbavatura del suo modo di essere, ovvero una “voce dal sen fuggita” che “poi richiamar non vale” (come recitava Pietro Metastasio), bensì un tratto essenziale della personalità in questione. Il criterio delle iperboli e delle associazioni improprie gli appartiene da sempre, ben prima che entrasse nell’agone politico.
Da tale punto di vista, l’accostamento con la tragedia della Shoah funziona proprio perché si tratta di un’incongruenza assoluta, e questo non solo, ovviamente, dal punto di vista strettamente storico. Un certo tipo di comunicazione politica, di cui Berlusconi è maestro, ma alla quale molti discepoli, non di una sola parte politica, si sono in successione accomodati, si fonda oramai da molto tempo sul ricorso disinvolto al passato per legittimarsi agli occhi dei propri contemporanei. Non è una questione di ignoranza, sia ben chiaro. Piuttosto è una piegatura, pro domo propria, delle vicende trascorse. Ciò che semmai è deliberatamente ignorato è il senso delle proporzioni. La chiave di volta, in tutti questi casi, è il presentarsi come vittime di qualcosa di così gigantesco e radicale da costituire un male inemendabile. L’uso pubblico (e quindi politico) delle persecuzioni contro gli ebrei, come della stessa Shoah, per autodefinirsi nella qualità di vittima assoluta, è parte integrante di questo meccanismo che si basa sul disinvolto accostamento di vicende diverse se non opposte. Funzionale quindi a tanti obiettivi. In realtà, tutto ciò ha poco o nulla a che fare con la storia e neanche, come invece impropriamente certuni hanno invece voluto vedere, con il filosemitismo o, addirittura, in una logica capovolta ma speculare, con l’avversione verso gli ebrei. Semmai la questione è un’altra.
Nel discorso pubblico, soprattutto di senso comune, il passato è visto come un puzzle che può essere nel medesimo tempo montato e smontato, a seconda delle necessità del caso. Il ricorso selettivo a segmenti di esso, del tutto decontestualizzati, diventa così una tentazione troppo grande, almeno per certuni, da potere essere evitata. Se lo sforzo che va fatto, dagli storici così come per parte delle persone di buon senso, è di tenere insieme tutto quel che è parte del passato, nella complessità, nella stratificazione e anche nella contraddittorietà dell’insieme delle sue innumerevoli componenti, e di cui lo sterminio delle comunità ebraiche fu e rimane un momento di non ritorno, per chi vi fa indebite e gratuite incursioni ciò non conta. Anzi, non deve contare, poiché le comparazioni e le associazioni sono, in questo caso più che mai, esercizi non tanto di manipolazione quanto di identificazione occasionale, senz’altro emotiva (e in ciò, paradossalmente, c’è sempre qualcosa di assolutamente sincero, come lo stesso Berlusconi ha poi rivendicato) ma priva di qualsiasi spessore che non sia quello dettato dal momento. E qui subentra il tema della banalizzazione della storia, della sua riduzione ad una appendice del presente, della sua piegatura alle esigenze e ai calcoli di circostanza. Quando si parla di “uso pubblico della storia” si intende anche e perlopiù questo. Soprattutto, ed è un problema che negli ultimi vent’anni si è riproposto più volte, in un contesto dove il politico o si presenta come un tecnico, figura fredda, algida e distante dalla collettività, oppure come un leader populista, che con il suo calore, con la sua stretta di mano, con il suo sorriso, travolge tutto e tutti, a partire dalle mediazioni istituzionali. Filosemitismo o antisemitismo perdono allora il loro significato se la cornice di riferimento è di tale genere. Si tratta infatti di categorie prive di fondamento in un contesto dove colui che si offre come un demiurgo, nel senso perlopiù di creatore di simbolismi collettivi e di mitologie facilmente fruibili (ben in accordo con un tempo che abbisogna di favole affinché non ci si guardi reciprocamente in volto, per scoprire riflessa la miseria del pensiero), si muove con la massima libertà di giudizio, in base all’interesse immediato che può capitalizzare per sé.
Al politico così inteso non interessa il passato, considerandolo semmai una mera variabile di un presente dove l’unica cosa che conta è la capacità di galvanizzare intorno alla propria persona l’altrui interesse. Non c’è alcuna profondità nel suo dire; ma, non di meno, questo atteggiamento non può essere liquidato come fatto di mera superficialità. Infatti, quando parla di sé è ben più “profondo” di quanto molti ascoltatori non siano disposti a pensare e a concedergli. Ritiene infatti che il mondo circostante sia una sorta di manifestazione del suo ego. In questo modo di dire (e fare) intercetta ancora il comune sentire di non pochi italiani, dei quali solletica l’irrisolta passione per il proprio “particolare”, visto come l’unica dimensione possibile della propria esistenza.
Il riferimento ai figli, un classico di certa autoconsiderazione, completa il quadro, dentro un linguaggio che rimanda al familismo come indice di riferimento della propria azione. Politici di tal fatta potranno un giorno venire meno ma la filosofia di vita che esprimono ha un solido ancoraggio, destinata a sopravvivergli. In tutta questa vicenda, le persecuzioni e lo sterminio assumono una natura completamente avulsa dal contesto storico, politico e socioculturale in cui si generarono, per essere usate, piuttosto, del pari ad un brand commerciale di immediato richiamo.
Claudio Vercelli
(10 novembre 2013)