Tanto rumore per molto
Alla fine l’«uomo dal sacco nero» Dieudonné M’bala M’bala è stato fermato nella sua marcia più o meno trionfale verso l’apoteosi scenica dell’antisemitismo, pardon, dell’«antisionismo». Non senza una girandola di decisioni contraddittorie, assunte da autorità in palese conflitto tra di loro nell’interpretazione della legge ma, anche e soprattutto, delle opportunità politiche. Una serie di colpi di scena che in queste ultime settimane hanno concentrato l’attenzione su questo personaggio, peraltro noto alle cronache per il suo radicalismo ideologico antiebraico da almeno una decina d’anni. Con l’”editto di Nantes”, pronunciato dal Consiglio di Stato, l’attore e politico francese non potrà calcare il palco, fendere la folla con le straripanti smargiassate che fanno parte del suo repertorio, deliziare orecchie ed occhi che vogliono godersi fino in fondo lo spettacolo del politicamente scorretto che di più non si potrebbe. Le cronache ci dicono che ben seimila acquirenti del biglietto d’ingresso (prezzo intorno ai cinquanta euro) sono così rimasti a bocca asciutta, perlopiù convinti di avere subito un torto, ed anche grave. Tra di loro, la stragrande maggioranza non era pubblico proveniente dalle periferie metropolitane francesi, quello a cui invece Dieudonné fa appello nei suoi proclami sospesi a metà tra politica e spettacolo, laddove però il secondo si mangia il primo, bensì membri del ceto medio, la cosiddetta «gente comune», alla ricerca di un riscontro, evidentemente, al proprio malcontento. Sono facili, in casi come questi, le equazioni in automatico, che stabiliscono analogie tanto immediate quanto scarsamente comprovate. Meglio quindi non indulgere in affermazioni non supportate da riscontri. E tuttavia alcune considerazioni, anche sulla scorta di altri precedenti, con la lunga discussione sulle forme e i modi per contenere e combattere il negazionismo, si impongo. Tra l’altro Dieudonné da almeno il 2008 va “pettinando” ed accarezzando i negazionisti, quanto meno da quando fece salire sul palco il “martire della causa” per eccellenza, quel Robert Faurisson che dell’universo dei negatori di professione è l’icona più affermata. Dunque, la prima considerazione è l’effetto rebound (il «rimbalzo»), ossia di amplificazione e disseminazione che le polemiche offrono a personaggi di tale fatta. Per inciso, si tratta proprio di ciò che vanno cercando, potendo meglio mestare le polveri nel mortaio quando questo è più grosso. Poiché, più che convincere da subito il grande pubblico del fondamento di quanto affermano, l’obiettivo al quale mirano è di instillare nel maggiore numero possibile di ascoltatori un dubbio sistematico, destinato poi ad aprire più di una falla nei convincimenti dei tanti. «In fondo, in quel che dice ci sarà pure qualcosa di vero», recita la litania dei molti «curiosi». «Che male c’è – aggiungono subito altri, di rincalzo – ad accordargli un po’ di attenzione? In fondo siamo in democrazia!». Non è quindi un caso se il secondo punto critico sia la cosiddetta «libertà di espressione». La quale, da queste vicende, ne esce torta e strizzata come uno di quei panni che, prima di essere messi a stendere, sono ancora intrisi d’acqua. Per attendere che asciughino bisogna girarli e rigirarli, storcendoli innaturalmente. Stabilire il confine tra opinione, per quanto in sé radicale, e offesa deliberata, con tutti i cascami dell’incitamento all’odio, è compito della legge e, laddove essa non ci sia, delle norme che il legislatore deve creare all’occorrenza. Ma non si tratta di un automatismo così evidente. I personaggi come Dieudonné si fanno forti proprio della frequentazione di questo terreno impalpabile, quello che separa il diritto all’immaginazione e alla rappresentazione dall’insulto ai vivi e ai morti, per ritagliarsi su di sé l’abito dei difensori della «libertà di pensiero». In tali vesti, infatti, e non in altro modo, introducono il discorso antisemitico, dandogli la forma, nel medesimo tempo, di legittimo sarcasmo e di esercizio di lettura delle cose senz’altro paradossale ma ragionevolmente fondato, insieme alla finzione di una spietata critica del potere, meglio rappresentato, in un’unica soluzione, come inconfessabile e occulto «sistema» di interessi. Comunque vada la nomea di martiri di una causa, quella della presunta libertà di parola, se la conquistano in tale modo, fortificandola poi attraverso l’adesione acritica del pubblico, che diventa l’indice quantitativo sul quale misurare la liceità di quanto si va dicendo. In piena sintonia con un assunto fondamentale del circuito dei media e della comunicazione contemporanea, ancorché falso, ossia che se è il pubblico medesimo a volere certe cose, se le va pretendendo, esse hanno senz’altro un loro fondamento, al di là di qualsiasi riscontro oggettivo, ossia razionale e, soprattutto, di ragionevolezza. Un terzo punto, sul quale sarà poi bene ritornare, prima o poi, è quello che ci indica come l’attività politica sia sempre di più vincolata dall’agire teatrale e dalla spettacolarizzazione. Che il tribuno assommi su di sé queste competenze non è una novità. Ma negli ultimi tre decenni la deriva verso forme di puro istrionismo, dove il contenuto della comunicazione si identifica in tutto e per tutto con chi prende la parola, mettendo in scena una vera e propria rappresentazione umorale, ferina, feroce, ferale è divenuto l’approdo obbligato per molti esponenti delle leadership populiste. Con significative differenze tra di loro, ma anche con tratti comuni, a partire dall’unione tra parola e insulto, avendo il secondo sostituito la prima e risultando molto gradito. Dieudonné ha, come dicono i francesi, le physique du rôle giusto, l’aspetto fisico adatto per la parte che ha deciso di interpretare. È la versione adulta dei ragazzi delle banlieue, quello che una parte di loro presumibilmente sarà, tra qualche anno, quando l’adolescenza e la giovinezza si saranno consumate. Non è solo un tratto somatico ma è la sua stessa identità meticcia a dargli una marcia in più rispetto ad un pubblico, come abbiamo già osservato, in sé assolutamente composito, che vive i fenomeni della globalizzazione in quanto fatto di contaminazione inevitabile e sgradita al medesimo tempo. L’attore francese proietta le contraddizioni, le tensioni, i contrasti che da ciò derivano “oltre la siepe”, indicando un obiettivo sul quale riversare il senso d’impotenza e d’espropriazione. Lo fa usando il codice della desacralizzazione dei valori condivisi, contrabbandato come indice di libertà. Anche questa è una modalità di azione non inedita ma che assume rinnovata linfa dinanzi alla cristallizzazione dei problemi, ad un tempo presente che sembra immodificabile, all’immobilismo delle cose e dei ruoli. E qui si inserisce, infine, un’ultima considerazione, relativa al confronto tra personaggi come Dieudonné e la pluralità dei poteri pubblici. Questi ultimi sono chiamati a pronunciarsi dinanzi alle sue (e altrui) intemperanze. Si chiede loro di agire con prontezza e velocità. Ma l’imbarazzo che li attraversa è palpabile, fermo restando che in una democrazia le sentenze degli uni possono essere ribaltate da quelle degli altri. Ancora una volta personaggi che giocano con il fuoco hanno tutto da ricavare da una situazione di tal genere, che è fisiologica in un sistema dove il vaglio di giudizio è competenza di più soggetti ed istanze (proprio a garanzia dell’imparzialità del medesimo) ma che per la sua durata, e per le modalità con le quali si svolge, dà al cittadino l’idea che non vi sia accordo sulla necessità di sanzionare una condotta riprovevole. Non di meno, giocando abilmente tra le contraddizioni dei sistemi giuridici contemporanei, legittimamente garantisti, i provocatori possono ancora una volta ritagliarsi alla bisogna l’abito del perseguitato. Qualora non vengano condannati diranno che era tutta una montatura ai loro danni, ora finalmente sgonfiatasi. Se invece vengono riconosciuti rei di quanto gli è attribuito, potranno sempre affermare che ciò che andavano dicendo era fondato, ovverosia che sussiste una persecuzione ai loro danni. Nell’uno e nell’altro caso piegando a proprio favore, ovvero a riscontro dei loro contenuti ideologici, qualsiasi esito derivi dall’azione di un giudice, di una corte come di una qualsiasi altra amministrazione. In sintesi: Dieudonné è una maschera tragica e triste soprattutto perché crede (o finge di credere) in ciò che va dicendo, celebrando il matrimonio ideologico tra alcuni rossi e non pochi bruni, cioè tra una parte della sinistra, più o meno radicale, che ha dismesso qualsiasi strumento di lettura critica della realtà, preferendovi il dileggio, e un nutrito numero di fascisti (non importa quanto ex, post o ancora neo), che si fregando le mani dicendosi che se è «grande il disordine sotto il cielo», la situazione (ovvero le opportunità che da ciò deriveranno) non potrà che «essere magnifica».
Claudio Vercelli
(12 gennaio 2014)