La Memoria fertile
Non è un libro facile quello che Elena Loewenthal consegna ai lettori italiani. Il titolo, “Contro il giorno della memoria” (Add editore, Torino 2014), sembrerebbe giocare su un tasto, il sensazionalismo, che in realtà non appartiene all’autrice. E neanche al testo, malgrado l’apparenza urticante e abrasiva. Semmai è proprio a partire dal riscontro di una sopravvenuta stanchezza per quei fenomeni di ricorrente esposizione mediatica, di sovra-rappresentazione nei luoghi e con i mezzi che concorrono a creare una pubblica opinione (in una sola espressione: di eccesso di richiami, di rimandi e di aspettative), che la scrittrice torinese dipana una riflessione impegnativa sul ricordo, sulla sua funzione sociale, sugli usi e sugli abusi. Lontane dalle sue pagine, quindi, quelle intenzioni, che invece non difettano in altri casi, di “cogliere al volo” la ricorrenza civile del 27 gennaio per tesserci sopra una trama compiaciuta, basata sull’eco di un presunto anticonformismo a basso o nullo prezzo, fomentando polemiche gratuite ma anche gratificanti, il cui vero metro di giudizio è, alla fine della fiera, il numero di copie vendute di un qualsiasi libello da usare e poi gettare. Forse il vero indice del testo, una novantina di dense pagine è la necessità di introdurre delle distinzioni. Non delle gerarchie, bensì delle priorità nel modo di intendere, valutare e, in immediato riflesso, di comportarsi verso una ricorrenza importante ma anche inflazionata, ossia che rischia, nel tentativo di dire tutto, di non spiegare niente. Per contrastare, inoltre, la marmellata zuccherosa di buoni sentimenti, di idealizzazioni tanto repentine quanto occasionali, di emotività in piena sintonia con un sentire mediatico molto diffuso, che nulla consolida, offrendo semmai la parvenza di una comprensione che è invece equivoco. Per smarcarsi infine, aggiungiamo noi, dalle banalizzazioni da talk show, da quella abitudine al chiacchiericcio oramai invalsa, pervasiva, ossessiva, dove tutto si tiene e, nel medesimo tempo, si butta. Intorno al Giorno della memoria si addensano aspettative tali da ingenerare ansie, ci ricorda Elena Loewenthal. C’è il bisogno di raccontare quella stessa cosa, lo sterminio, con parole e strumenti sempre nuovi. Subentrano così la coazione al non ripetersi, l’angoscia da performance, il rischio della ridondanza che deriva dal troppo, quasi che il vuoto lasciato dai corpi delle vittime dovesse essere riempito da un “pieno” di immagini, raffigurazioni, rimandi da noi ora offerto a parziale riparazione. La confusione è nemica della comprensione. Peraltro, aggiunge l’autrice, che dalla comprensione, intesa come conoscenza, possa poi derivare, in una sorta di nesso logico senza soluzione di continuità, la coscienza collettiva, è assunto assai discutibile. La memoria, evocata da più parti come il balsamo rispetto a un passato tanto gravoso qual è quello delle persecuzioni e, poi dello sterminio, degli ebrei, non è per nulla detto che possa (e ancor meno debba) assolvere a tale ruolo. Ci sono, a tale riguardo, due ordini di problemi: la memoria di chi e la memoria per cosa. Auschwitz non disegna l’identità ebraica. Se per l’Europa è il luogo dell’”inaudito” per l’ebraismo europeo (e negli ultimi decenni anche quello mondiale) è l’indice parossistico del vuoto, che porta all’afasia. Ciò che è subito, ciò che ci precipita addosso come una slavina, non ci appartiene mai del tutto. Da questo punto di vista, l’ebraismo non c’è nella Shoah poiché essa non lo può raccontare se non come assenza. Semmai ne rimangono le sue ceneri, trattandosi di un buco nero che non crea coscienza ma che sussiste solo per avere dissipato energie e corpi. Non è un concetto letterario e, men che meno, filosofico, quello che l’autrice intende affermare. Si tratta di sostituire a una falsa evidenza, condivisa come equivoco comune da buona parte della società contemporanea, la necessità di una nuova consapevolezza, basata su una riconsiderazione dello statuto civile della memoria. E allora riconoscere la centralità dello sterminio nella storia della contemporaneità europea implica il riconoscersi come europei in esso, “guardare quel passato e non negare che riguarda se stessi. Non perché colpevoli ma perché quella storia è imprescindibile dalla propria identità collettiva”. La storia che si racconta non è quella delle vittime bensì dei carnefici e, soprattutto, degli spettatori. Auschwitz non spiega l’ebraismo poiché ne è la negazione. Nei campi di sterminio gli ebrei si sono trovati quel tanto di tempo che è occorso ai loro carnefici per annientarli. Cercare oggi di comprendere ebrei ed ebraismo partendo dalla loro distruzione è un non senso pieno di rischi. Non è questa, quindi, la funzione del Giorno della memoria, rimandando semmai alla necessità di indagare sui meccanismi della barbarie come a processi, soggetti, attori e eventi autonomi rispetto alle vittime. Il nesso inscindibile tra nazismo ed ebrei che è venuto nel corso del tempo a definirsi può rivelarsi addirittura controproducente. Se nulla chiarifica della storia dei secondi tuttavia li consegna, nell’immaginario collettivo, paradossalmente, ad una sorta di matrimonio forzato, consumato in un cimitero, con il primo. Rinnovandosi in una sorta di coazione a ripetersi, nella logica fallace delle false analogie, quando, per fare un esempio oramai ossessivamente ripetuto un po’ ovunque, la valutazione di ogni gesto in campo ebraico che fuoriesca dall’aspettativa che la vittima rimanga tale per sempre si traduce, inesorabilmente, nella condanna della medesima ad essere ritenuta moralmente (e politicamente) assimilabile al suo storico carnefice. L’equazione tra sionismo e nazismo, al di là della ripugnanza che sollecita in ognuno di noi, funziona sulla base di questo effetto di traslazione. Inutile evocare e invocare l’insensatezza morale, prima ancora dell’infondatezza storica e politica, di tale associazione di idee. Poiché la sedimentazione e la convinzione dell’intercambiabilità dei ruoli è, purtroppo, un meccanismo oramai assodato, che si rinnova sempre. Le argomentazioni dell’autrice sono quindi convincenti e, se accolte come opportunità e sfida, possono costituire l’avvio di un percorso che non si risolva nel falso dilemma tra ricordare o dimenticare né, soprattutto, nella sterile evocazione di un qualche “obbligo alla memoria” che è, in realtà, un accomodante guscio vuoto dentro il quale sempre più spesso le nostre società si calano per canonizzare e ritualizzare una funzione che si dovrebbe prestare invece assai poco a questo genere di atteggiamento mentale e civile. Laddove anche le migliori intenzioni producono effetti imprevedibili e, a volte, ingestibili. Se il Giorno della memoria è quindi inteso come un omaggio, più o meno convinto e doveroso, agli ebrei, rischia di prodursi in un’eterogenesi dei fini. Allo storico di professione è ben noto il fatto che non si spiega lo sterminio parlando delle sue vittime. Poiché questo non è il prodotto del rifiuto di una “diversità” bensì dell’idea che vi fosse una patologia sociale mostruosa, l’ebraismo medesimo, da annientare. Non era l’alterità che ossessionava il nazismo e i fascismi bensì l’alterazione dell’ordine costituito che essi attribuivano a quanti andavano perseguitando, per il fatto stesso di esistere, a fare da movente principale nell’azione persecutoria. Non si comprende, quindi, l’ebraismo partendo dalla sua nullificazione. Così come non si comprende il nesso tra modernità, tecnica e deumanizzazione lavorando solo sulle vittime. L’imperativo della memoria, e quello di “conoscere” gli ebrei, hanno peraltro sostituito la necessità di conoscere se stessi. Così come una diffusa vittimofilia rischia di rinnovare e perpetuare una infinita serie di equivoci, a partire da quelli che sanciscono l’accettabilità morale (ed esistenziale) di una persona in base all’aspettativa di condotta che si nutre nei suoi confronti e non per quello che effettivamente invece riesce ad essere. Non compete agli ebrei la missione di testimoni perenni. Né compete alle nostre società un qualche obbligo di risarcimento morale se esso viene inteso come una sorta di improprio pareggiamento dei conti. “Non c’è alcuna logica nel pretendere di stabilire un meccanismo che partendo dalle celebrazioni della memoria la concepisca come un omaggio e un risarcimento ed esiga in cambio gratitudine per questo impegno”. Non funziona così la storia, non è questa la funzione della memoria.
Claudio Vercelli
(26 gennaio 2014)