Qui Milano – Nuovo cinema israeliano: Shin Beth, leader a confronto

Sala affollata e grande curiosità. Milano conferma il suo apprezzamento per le proposte del Nuovo Cinema israeliano protagoniste della rassegna organizzata dalla Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea e Fondazione Cineteca Italiana in collaborazione con il Centro culturale Pitigliani di Roma. Curata da Nanette Hayon e Paola Mortara del Cdec, con la direzione artistica di Dan Muggia e Ariela Piattelli e la sponsorizzazione della società di gestione del risparmio AcomeA, la manifestazione proseguirà fino a giovedì 27 febbraio allo Spazio Oberdan, con proiezioni ogni pomeriggio e ogni sera, selezionate fra cortometraggi, documentari, film che raccontano le più diverse sfaccettature della società israeliana.
Tra le proposte, grande attesa per “The gatekeepers”, il documentario di Dror Moreh che racconta le personalità e la visione d’Israele di sei capi del servizio di sicurezza Shin Beth, nominato all’Oscar 2013, in programma martedì 25 febbraio alle 21 (nell’immagine). “Un film da vedere e da discutere” ha scritto Asher Salah, docente alla Bezalel Academy di Gerusalemme nella sua recensione su Pagine Ebraiche di febbraio.

Quale sarebbe la nostra sorpresa se invece di un agente di basso rango come Edward Snowden o il caporale Bradley Manning a rivelare intrighi ai vertici del potere, cospirazioni e tradimenti fossero i capi dell’americana NSA (National Security Agency), del MI5 di sua maestà Britannica o dei nostrani AISI e SISMI? Di sicuro questo non sembrerebbe uno scenario plausibile in Israele dove sino a poco tempo fa persino i volti dei direttori dei diversi servizi di intelligence erano sconosciuti ai più, protetti dal segreto e da un rigoroso divieto di pubblicità. Eppure questo è l’exploit realizzato dal regista israeliano Dror Moreh, classe ‘61, col documentario, Shomrei Ha-Saf (The Gatekeepers) basato su decine di ore di interviste a sei capi dello Shin Bet, organizzazione nota anche con l’acronimo di Shabak (Sherut Bitahon Klali ovvero Servizio di sicurezza generale), disposti a rispondere a ogni domanda senza peli sulla lingua sulla loro esperienza alla direzione di una delle organizzazioni più segrete del paese, preposta alla sicurezza interna, con compiti di informazione e sorveglianza in Cisgiordania e a Gaza, assieme al Mossad, incaricato invece di missioni di spionaggio e controspionaggio all’estero, e all’Aman, il servizio di intelligence militare. Non che Israele non abbia conosciuto in passato fughe di informazioni riservate, si pensi a quanto trapelato quest’anno sul caso Zygier, il giovane australiano morto suicida in un carcere di supersicurezza israeliano nel 2010. La novità è che qui a discutere, e in molti casi anche a criticare, i metodi di lavoro dello Shin Bet non sono personaggi ambigui e marginali, come quel Victor Ostrovski che nel 1990 pubblicò negli Stati Uniti un libro di rivelazioni sul Mossad, ma per l’appunto gli stessi Gatekeepers, i custodi di Israele, coloro che alla sicurezza del paese hanno consacrato l’intera loro carriera. Se cinque di loro sono ormai semplici cittadini e da tempo hanno lasciato l’organizzazione – chi entrando in politica (Avi Dichter, attuale ministro della sicurezza nazionale per il partito Kadima, Yaaqov Peri deputato di Yesh Atid e Ami Ayalon sino al 2009 deputato laburista) e chi cominciando nuovi percorsi professionali-, è degno di nota che Yuval Diskin abbia contribuito alla realizzazione del film mentre era ancora in servizio nello Shin Bet, che ha diretto tra il 2005 e il 2011, di per sé un evento senza precedenti e da alcuni visto con preoccupazione per il pregiudizio alla neutralità politica che dovrebbe caratterizzare l’operato di un funzionario dello Stato durante lo svolgimento delle sue mansioni. Il film si dipana seguendo cronologicamente in sette segmenti alcuni degli episodi più salienti e controversi della storia israeliana degli ultimi trent’anni, dal ruolo crescente nella politica israeliana dello Shin Bet all’indomani della Guerra dei sei giorni, sino al disengagement da Gaza del 2005, passando per lo smantellamento della rete eversiva ebraica, la cosiddetta Mahteret Ha- Yehudit (Jewish Underground), che nei primi anni ottanta si proponeva di fare saltare in aria la moschea di Al-Aksa, e l’assassinio Rabin del 1995 da parte dell’estremista di destra Yigal Amir. Le immagini d’archivio recuperate per illustrare gli eventi trattati, immagini spesso insostenibili, alcune delle quali mai mostrate sui media israeliani, come quelle dei corpi calcinati delle vittime degli attentati suicidi palestinesi in Israele del 1995-96 e della seconda intifada, si alternano con le interviste dei capi dello Shin Bet, che in quegli episodi ebbero spesso un ruolo di primo piano, anche se lontano dai proiettori dell’attualità, pagando talvolta il prezzo dei propri errori con dolorose sequele giudiziarie e politiche, come quelle che portarono alle dimissioni di Avraham Shalom, per l’ordine dato di eliminare i sequestratori palestinesi dell’autobus della linea 300 poco dopo la loro cattura e la liberazione degli ostaggi da parte di un commando speciale, e a quelle di Carmi Gilon, per aver sottovalutato la possibilità che un ebreo potesse attentare alla vita del primo ministro di allora Yitzhak Rabin. Il documentario presenta quindi un eccezionale interesse per chi desidera meglio conoscere i retroscena della storia israeliana recente e delle considerazioni strategiche nella gestione del conflitto araboisraeliano e nei rapporti di forza tra le differenti componenti ideologiche del ventaglio politico. Rimarrà invece deluso chi vorrebbe sentire indiscrezioni su questioni di maggior attualità e urgenza per gli ultimi governi di Israele, come per esempio la possibilità di un attacco preventivo contro l’Iran, nonostante le affermazioni di Abraham Shalom sull’opportunità di trattare con tutti, persino con Ahmedinejad, o sulla difficile ripresa di un processo di pace, che pare però, stando alle dichiarazioni di tutti e sei i capi dello Shin Beth e indipendentemente dalle loro diverse affiliazioni politiche, vivamente auspicato. Persino sul caso dell’autobus della linea 300 l’ottimo documentario del 2013, Alef Tekhasel Otam: Ha-Horaah She Erida Et Ha-Shabak (A. eliminali! L’ordine che sconvolse lo Shabak) di Levi Zini e Gidi Weitz offre una descrizione e un’analisi degli eventi più circostanziata di quella presentata nel documentario di Dror Moreh. Tuttavia The Gatekeepers ha due meriti che giustificano ampiamente la sua nomination all’Oscar 2013 come miglior documentario (d’altronde assieme a un altro film israeliano Five Broken Cameras, di Emad Burnat e Guy Davidi del 2011, che per quanto assai più convenzionale di quello di Moreh, testimonia della straordinaria stagione che sta vivendo la scuola di giovani documentaristi israeliani, coronata da numerosi riconoscimenti internazionali). Il primo dipende dalla franchezza con cui i dirigenti dello Shin Bet parlano di fronte alla telecamera creando sensazione nel paese. E infatti, la rete uno, il canale pubblico della televisione di Stato israeliana, ha mandato in onda il film nella sua versione integrale di cinque ore (ora disponibile in streaming sul sito della Israel Broadcasting Authority), in cinque puntate, in prime-time subito dopo il notiziario delle otto di sera. Al termine di ogni puntata il film è stato discusso da panels composti da giornalisti, uomini politici, alcuni coinvolti negli eventi descritti nel film, e membri di rilievo dell’intelligence israeliana, spesso stretti collaboratori dei protagonisti del documentario. Ma forse il maggior risultato del film consiste nell’essere riuscito a dare un ritratto di coloro che prendono le decisioni in Israele che rimette in questione le tradizionali suddivisioni tra falchi e colombe, tra quelli che nel lessico popolare israeliano vengono chiamati Bithonistim, coloro che antepongono la sicurezza dello Stato a ogni altro valore, e i rappresentanti del cosiddetto Makhaneh Ha-Shalom, quanti sono disposti anche a sacrifici territoriali per il raggiungimento di una soluzione pacifica del conflitto. Il film riesce a mettere in luce la dimensione tragica dei suoi protagonisti, che se da un lato si sono trovati più volte nella loro carriera a decidere della vita e della morte di altri esseri umani, poi non esitano a riconoscere nei loro avversari dei “combattenti per la libertà” sino a domandarsi se il prezzo morale e umano del loro operato non sia stato troppo alto. La questione morale costituisce infatti il filo conduttore di tutto il film, ragion per cui è stato attaccato per avere montato le interviste in modo da mettere a fuoco soltanto gli interventi più critici contro l’establishment. Anche se la versione lunga del documentario è effettivamente molto più dettagliata e le posizioni dei protagonisti più sfumate di quella breve di un’ora e mezza, concepita per una distribuzione internazionale, pochi spettattori rimarranno insensibili di fronte alle dichiarazioni di personaggi come l’anziano Avraham Shalom, che pur sopravvissuto da ragazzo in Austria alle persecuzioni naziste a un certo punto afferma esserci “similitudini, anche se non equivalenze, tra l’atteggiamento tedesco nei confronti delle popolazioni civili dei paesi occupati durante la guerra e quello israeliano con i palestinesi”, o ancora come quando Yuval Diskin, il più giovane tra i gatekeepers, sottoscrive le funeste previsioni del filosofo Yeshayahu Leibowitz (1903-1994) che all’indomani della guerra dei sei giorni del 1967 mise in guardia contro il pericolo che Israele diventasse un regime diretto dai suoi servizi segreti. E al di là dei successi raccolti dallo Shin Bet negli anni, come non sentire il peso tremendo della responsabilità che ancora oggi porta Carmi Gilon per non essere riuscito a evitare l’assassinio di Rabin e delle parole di Ami Ayalon quando sostiene che Israele dopo avere vinto tutte le battaglie oggi forse rischia di perdere la guerra? Un film da vedere e da discutere.

Asher Salah, Pagine Ebraiche, febbraio 2014

(24 febbraio 2014)