Qui Parigi – Alain Finkielkraut all’Académie
“La letteratura non è stata capace di impedire alcun massacro fra quelli che hanno contrassegnato il Ventesimo secolo. Ma senza la letteratura non saremmo più in grado di comprendere e di conseguenza resteremmo senza difesa. Il pericolo dell’opacità della comprensione è il rischio più grave”. È il messaggio che il grande filosofo e intellettuale francese Alain Finkielkraut ha voluto lasciare ai lettori di Pagine Ebraiche in occasione dell’intervista concessa al direttore Guido Vitale all’indomani dell’uscita di una delle sue prove più attese – “Un cuore intelligente” (pubblicato in Italia da Adelphi).
Parole che assumono una luce tutta speciale con la nomina, avvenuta nelle scorse ore, tra gli ‘immortali’ dell’Académie française. Finkielkraut occuperà la poltrona numero 21, rimasta vacante dal 2012 in seguito alla scomparsa dello scrittore belga Fèlicien Marceau. “Mi preoccupa l’impoverimento del nostro vocabolario, anche nelle élite. L’Académie significa la lingua sostenuta dalla letteratura. Credo molto in questo: la Francia è una patria letteraria”, ha subito dichiarato alla stampa.
Nato a Parigi nel 1949, figlio di sopravvissuti ai campi di sterminio, Finkielkraut è stato allievo dell’Ecole Normale Superieure. A segnare la sua formazione il pensiero, tra gli altri, di Hannah Arendt, Martin Heidegger, Emmanuel Lévinas e Vladimir Jankelevitch. Ospite fisso di emittenti televisive e radiofoniche che se lo contendono per la capacità di riflettere sui grandi temi della contemporaneità, è universalmente ritenuto un intellettuale ‘scomodo’ per la schiettezza (e talvolta l’irriverenza) che permea alcune sue affermazioni.
“Geniale, impertinente, quasi insopportabile, come chi lo apprezza ha imparato a conoscerlo, Finkielkraut – scriveva Vitale – non sembra accettare mezze misure e non sembra praticare la giustizia salomonica. Non quella, almeno, che comunemente intende chi pratica i luoghi comuni. L’intervistatore si addentra così in un terreno certo affascinante, ma aspro e per nulla rilassante”.
Numerosi le tematiche affrontate nel corso dell’intervista: il valore supremo della conoscenza, l’impegno per la cultura, l’equilibrio tra intelligenza ed emotività, l’identità ebraica. In particolare, relativamente all’ultimo punto, Finkielkraut ammoniva contro il pericolo di una distorta percezione di se stessi. “È ancora necessario riaffermare con forza la necessità di ricostruire un’identità ebraica viva nel presente, nel quotidiano, non nel mito. Io – spiegava – sono un discendente di sopravvissuti e di perseguitati, non sono un sopravvissuto. La tentazione di vivere il presente nella categoria del passato prossimo è sempre in agguato”. Alla domanda se l’antisemitismo non fosse più una minaccia, il filosofo rispondeva di considerarla ancora tale ma con una precisazione: nel corso degli anni avrebbe cambiato natura. “L’antisemitismo che conta – sottolineava – oggi si proclama antirazzista. E dobbiamo trovare il coraggio di dirlo. Il nuovo antisemitismo è un antisemitismo islamoprogressista e si nasconde dietro agli slogan dell’antirazzismo”. Secondo Finkielkraut prevarebbe oggi una concezione di comodo secondo cui l’Europa dovrebbe quindi continuamente espiare i propri peccati originari “sacrificando ogni sua definizione sostanziale a vantaggio dell’affermazione di generici diritti dell’uomo”.
In pericolo sarebbe anche la corretta trasmissione della Memoria della Shoah. “È a rischio – il suo pensiero – se ci affidiamo esclusivamente alla testimonianza degli ultimi sopravvissuti che per motivi generazionali stanno scomparendo. Ma saper leggere vale più di mille viaggi ad Auschwitz. Conoscere Primo Levi e imparare a capire Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati è la memoria che dobbiamo difendere”. Il maggior pericolo, metteva quindi in guardia, “è la paralisi dell’intelligenza”.
Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked
(11 marzo 2014)