Negazionismo 2.0
La parola negazionismo (creata dallo storico Henry Rousso nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso, per distinguere e identificare quanti rifiutavano aprioristicamente lo sterminio degli ebrei attraverso le camere a gas in quanto fatto storico) si presta ad un uso e ad una connotazione apparentemente incontrovertibili e inconfondibili. Quanto meno, sembra richiamare disposizioni d’animo eatteggiamenti (una mentalità, un insieme di pratiche discorsive, una retorica) ben definiti. Il che è vero ma, per più aspetti, non sufficiente. È negazionista colui che per l’appunto nega l’evidenza del fatto genocidario. Ma il nocciolo del negazionismo, in quanto provocazione calcolata, basata non sulla scienza ma su un atteggiamento “scientista”, dotato comunque di una sua logica ferrea e indiscutibile, in realtà parte anche da un altro presupposto. Ossia che Auschwitz si dia in quanto colossale truffa, come mistificazione totale: i nazisti non sterminarono nessuno ma di certo chi li ha sconfitti militarmente, politicamente e moralmente ha costruito ad arte una colpa che poi ha attribuito a loro ingiustamente.
Al mondo, quindi, esistono i campi di sterminio ma non come luoghi in cui si consumò un crimine totale, assoluto, per mano assassina, sulla base di una politica di annientamento di Stato, bensì come prodotto di una macabra farsa, una bieca speculazione che ricostruisce il passato ad uso e consumo di un presente dove le coscienze vengono anestetizzate, sottoposte ad una sorta di lavaggio delle menti o, come “elegantemente” afferma un sito in lingua italiana, «alla circoncisione dei cervelli». Al fondo del discorso negazionista c’è, per paradosso, un fondamento che afferma qualcosa, non limitandosi a rifiutare recisamente la verità storica ma contrapponendo ad essa una controverità, quella per l’appunto che deriva dalla “scoperta” che quel fu è solo ed unicamente una menzogna, costruita ad arte, per manipolare le coscienze dei moderni. Il negazionismo ideologico e strutturato, quello che si trova sul Web, come in certe pubblicazioni, e che argomenta quasi allo sfinimento le sue controverità, si basa senz’altro sul rifiuto della conoscenza storica – se con essa intendiamo l’analisi deifenomeni sociali attraverso il tracciato della loro complessità, della stratificazione, della mutevolezza e dell’interazione – ma ambisce comunque ad affermare una sua egemonia sul discorso storico di senso comune. Non importa quanto ciò possa essere basato sulla mistificazione poiché il negazionista ribalterà immediatamente tale accusa contro quanti dovessero confutarlo, esercitando un violento fuoco di sbarramento attraverso tutte le strategie discorsive che ha a disposizione.
L’agire negazionista, infatti, si basa essenzialmente sull’adozione di procedure retoriche di dissimulazione, alterazione e manomissione della verità conclamata (il fatto storicodello sterminio) e di simulazione di una verità alternativa (la «menzogna di Auschwitz», una Disneyland degli orrori ad uso e consumo dei tanti creduloni in circolazione). In tale modo, il negazionismo si presenta come un movimento di opinione che offre ai suoi astanti, e a quanti vogliano ascoltarlo, nel medesimo tempo una sorta di riappropriazione della storia, altrimenti egemonizzata dagli «sterminazionisti», dai «sionisti», dagli «ebrei», della cui cappa strumentale e manipolatoria occorre liberarsi, e un risarcimento per le «fandonie» che il discorso storico ufficiale continua a propalare. Non è un caso se parli di sé alla stregua di un movimento di liberazione intellettuale, il cui obiettivo è di denunciare l’impostura delle false verità, quelle di «regime». Così comportandosi si avvalora e si accredita come esercizio di anticonformismo diffuso, se non di dissenso politico, verso i vincitori, i quali, come recita un vecchio, diffuso e fortunato adagio, «scrivono la storia». Ovviamente pro domo propria, condannando i vinti ad una sorta di dannazione della memoria e attribuendogli nefandezze che questi ultimi mai avrebbero commesso.
L’obiettivo del negazionismo non è tanto ottenere da subito l’assenso sul loro obiettivo di massima, l’affermazione dell’inesistenza della Shoah nella sua natura di fatto storico, quanto di corroborare un target intermedio, quello del dubbio sistematico, dello scetticismo generalizzato. Se la storia la scrivono i vincitori, come possiamo per davvero sentirci al sicuro dal sospetto che non sia una menzogna bella e buona? La regola del sospetto riconduce poi a quelli che sono i due pilastri del negazionismo, il complotto e l’antisemitismo. Il complotto è, in questo caso, il metodo con il quale si legge (e si interpreta) l’intera storia umana. O quanto meno quella che deriva dall’età dei Lumi e delle Rivoluzioni, quando l’Ancien Règime decadde definitivamente. Essa sarebbe, secondi tale logica, il prodotto non del conflitto di soggetti collettivi definiti, palesi, ossia un proscenio di forze con interessi contrapposti ma tangibili, bensì il campo dove si agitano elementi occulti, coalizioni clandestine, figure quasi al limite della bestialità pronte a divorare, o comunque a soggiogare, le menti semplici ed ingenue. Il negazionismo, come ogni forma vecchia e nuova di complottismo, si appella alla mobilitazione collettiva contro quella che descrive come una pericolosissima deriva, destinata a rinnovare la schiavitù delle menti.
Nella dialettica tra occulto e palese e nella dinamica tra camuffamento e disvelamento il negazionismo si situa sempre sul secondo versante, acquisendo a sé la seconda variabile di coppia e presentandosi come ciò che proteggerà, ora e per sempre, le collettività dalla morsa del nemico celato. L’antisemitismo, come ulteriore pilastro, è la sostanza stessa della subcultura negazionista, il suo strato più profondo, sul quale si rispecchia trovando una coerenza che, altrimenti, rischierebbe di non avere. Da questo punto di vista sa di potere contare su una lunga tradizione diffamatoria, costituitasi oramai come discorsoautoreferenziato, quindi inossidabile. Il Web rappresenta un habitat ideale per la diffusione, in forma virale, del parossismo che si accompagna alle costruzioni negazioniste. Se non altro perché la misura e la concezione del tempo virtuale poco o nulla hanno a che spartire con quello “reale”. Così come anche con il rapporto con lo spazio che, nel mondo virtiuale, è al contempo globale, senza vincoli di sorta, e particolare, ovvero ruotante esclusivamente intorno al soggetto che interagisce con il resto del modo (o con ciò che considera tale) attraverso il monitor e la tastiera. Il tempo si azzera, ripiegando in una specie di eterno presente, dove non c’è altra dimensione prospettica che non sia quella del «qui ed ora», vissuta come esclusiva.
Questo particolarismo temporale, questo ripiegamento sul momento presente è consonante con l’atteggiamento di chi, negando, rifiuta la visione complessa (e complessiva) della storia, contrapponendogli l’ossessione per il particolare. Il negazionismo è il trionfo del particolare: nella ricerca esasperata di un qualcosa che, non coincidendo con l’intera trama degli eventi, possa essere usato per delegittimare il discorso storico, si differenzia totalmente dal revisionismo (di cui tuttavia rivendica a sé il nome, camuffandosi come opera di revisione culturale e non di stravolgimentofattuale del passato), che invece è una filosofia della storia, dove cioè si discutono nessi di causa ed effetto ma non si mettono in discussione gli eventi in quanto tali.L’ossessione per il particolare si incontra quindi con il particolarismo identitario che il Web va promuovendo. Si tratta, in questo caso, di un fenomeno complesso, che rinvia al modo di essere e di intendersi da parte degli utenti. Sempre più spesso la fruizione dello spazio virtuale è orientato dall’esigenza che molti di loro esprimono di parlare di sé, di fatto piegando tutte le comunicazioni al bisogno di mettersi letteralmente su una piazza, ancorché immaginaria, dove concentrare l’attenzione sulla propria persona, ovvero sull’idea che di essa si costruisce. Molto spesso un’immagine piegata ad una sorta di riscrittura della biografia personale, dove la storia passata viene come sezionata, scomposta e ricomposta secondo le esigenze del momento.
Cosa c’entra tutto ciò con il negazionismo? In realtà il rapporto che esso intrattiene con la storia collettiva è simile a quello che non pochi “navigatori virtuali” stabiliscono con se stessi, con il proprio passato. Nell’uno e nell’altro caso ciò che è stato diventa un insieme di eventi tra di loro scollegati o comunque decontestualizzabili. Di essi si prende in considerazione solo ciò che può interessare, enfatizzandolo, mentre la parte restante rimane abbandonata a sé o addirittura volutamente rimossa. L’attenzione esasperata per il particolare, quindi, risponde non solo ad una consapevole strategia di manomissione della conoscenza ma a un più generale bisogno di dominarla attraverso l’attenzione spasmodica per il singolo dato, a discapito di tutto il contesto. Non è un caso se i negazionisti abbiano al centro del loro discorso le loro stesse persone, intese, di volta in volta, come figure prometeiche o martiri del sapere, portatori di conoscenza tanto scandalosa quanto scomoda o vittime del complotto delle forze occulte. La quasi totalità dei negazionisti ha una elevata considerazione di sé, alimentata da un narcisismo senza confini. L’individualismo è come un collante – ancora una volta si tratta di un paradosso ma tutta la traiettoria del negazionismo si alimenta di iperboli, a partire dal principio stesso per cui una fatto che è esistito viene invece dichiarato come inesistente – che attira soggetti tra di loro diversi ma uniti dall’esigenza di sentirsi vincolati da un comune sentire, un nesso di reciprocità, che trovano non solo nel risentimento antiebraico ma anche nella modalità che un’identica forma ideologica gli offre per sentirsi “considerati”, finalmente al centro dell’attenzione che ritengono di meritarsi. Sono loro le vere “vittime” del complotto ebraico. Lo sono perché ritengono di avere capito quale sia il punto debole della «manipolazione» giudaica, il fuoco del complotto, il centro della più grande «menzogna» del Novecento. Un ultimo puntomerita di essere accennato. Rinvia al rapporto tra autorità, autorevolezza e sapere.Tradizionalmente, la conoscenza è il prodotto di una trasmissione intergenerazionale. Ciò implica molte cose, a partire dal rapporto diretto tra persone fisiche. Poiché il sapere non è solo astrazione ma anche e soprattutto esperienza. Nella rete, il legame verticale tra conoscente e discente si frantuma invece in una dimensione orizzontale, dove non esiste più nessun filtro o gerarchia di giudizio ma, più banalmente (e la banalità è un rischio enorme, come la storia ci insegna), una questione di gusti, di scelte occasionate dal momento, di immedesimazioni estemporanee. Una dimensione, quest’ultima, che spezza il senso della continuità storica così come l’idea che il sapere sia il risultato di un processo formativo complesso.
Questa trivializzazione implica la decadenza dell’autorevolezza dei tradizionali centri di educazione, a partire dalle scuole e dalle università, sostituendoli con la falsa convinzione che con il Web si realizzi, per il fatto stesso che si abbia possibilità di accedervi comunque e ovunque, una sorta di «democrazia diretta», basata sulla fruizione indiscriminata, in assenza di codici culturali precisi, di tutto quello che vi circola. Laddove tutte le cosesono allineate una dietro l’altra, nell’indifferenza di valore che è scambiata per eguaglianza di significati. Il relativismo è allora servito sotto le mentite spoglie del pluralismo. Di fatto una prateria nella quale i negazionisti, maestri della relativizzazione, possono muoversi liberamente, intercettando e interpretando malumori, rabbie, insicurezze e paure, soprattutto per il tempo a venire, quello che è per ognuno di noi il più incerto.
Claudio Vercelli, storico
(13 aprile 2014)