Raffigurazioni mutevoli

vercelliLa vicenda della Shoah costituisce un oggetto di studio e riflessione fortemente problematico, nel momento in cui di essa se ne intendano resocontare modalità ma, soprattutto, natura e ragioni. Non c’è nessuna autoevidenza, contrariamente a quanto certuni si ostinano a credere. Il fatto che sia oggetto di molteplici discussioni è ben lontano dal renderla un elemento immediatamente intelligibile. Anzi, se ne parla frequentemente poiché continua ad interrogarci su di sé come sul nostro presente. Se di motivi, nello steminio, si può parlare, esse si scontano immediatamente contro un dato, nella sua prepotente autoevidenza: il genocidio degli ebrei, ancorché così tragicamente esplicito nella sua fattualità, sembra essere privo di una ragione, quanto meno se con ques’ultima parola si vuole indicare un insieme di fattori coerenti, tra di loro riconducibili ad una concatenazione logica che non sia solo quella della successione temporale degli eventi. Tralasciamo la tentazione della metafisica del male e teniamoci ancorati alla fattualità.

Già Hannah Arendt ebbe modo di parlare, al riguardo, di un «regno dell’insensatezza». Espressione che usava per i Lager ma la quale, per effetto di immediata traslazione, coinvolgeva anche lo sterminio. Esaurite nelle secche dell’astratta modellistica interpretativa quei tentativi economicisti che ascrivono la deportazione alla costituzione di uno stato di schiavi, al servizio dell’Herrenvolk (il «popolo dei signori») germanico – fatto senz’altro presente nell’universo concentrazionario ma non dirimente, poiché incapace di spiegare non solo i campi di sterminio propriamente intesi ma anche gli omicidi di massa compiuti dalle unità mobili operanti all’Est; tralasciati gli approcci di ordine teologico – inadeguati a rendere conto della materialità delle circostanze, ancorché orientati a ordinarle dal punto di vista degli esiti morali e non sul piano politico; esperiti gli irrisolti e consunti tentativi di ricondurre alle mere motivazioni di una ideologia politica, per quanto estrema, delle scelte la cui radicalità e funzionalità sembra invece quasi assurgere a calco di un modello produttivistico, in sintonia con il fervore taylorista del capitalismo novecentesco, rimane il problema di come resocontare ciò che implica, come è stato efficacemente rilevato, l’«esilio della parola», il suo annichilimento nelle pieghe di un fenomeno storico che lascia, letteralmente, senza parole.

Questo bisogno si fa ancora più prepotente nel momento in cui si considera che «se Auschwitz è diventato la metonimia del male assoluto, la memoria della Shoah è diventata, bene o male, il modello della costruzione della memoria, il paradigma a cui quasi ovunque si fa riferimento per analizzare il passato o per tentare di installare nel cuore stesso di un evento storico che si svolge sotto i nostri occhi, come di recente il caso della Bosnia, e che non è ancora diventato storia, le basi del futuro racconto storico» (così Annette Wieviorka). Evento per certi aspetti inesplicabile ma al quale siamo obbligati a dare un nome e del quale dobbiamo fornire delle ragioni, esso si qualifica, al di là dei tanti elementi di cui è costituito in quanto “fatto storico”, come un serbatoio di percezioni, un repertorio di immagini, sia pure estreme, una sorta di catalogo della nostra contemporaneità nella sua più radicale manifestazione. È quindi un luogo di formazione e destrutturazione di identità, un passaggio ineludibile nella costituzione delle fisionomie sociali dell’Occidente postbellico. Deve essere da subito rilevato che la storia e la storiografia della Shoah si confrontano con una pluralità di fattori tra i quali vanno annoverati i soggetti e i luoghi – quindi le comunità e le culture – che di volta in volta prendono parte al dibattito sul significato da attribuire all’evento, i modelli epistemologici che vengono adottati per dare corso alla discussione, le priorità politiche e morali che sono sottointese alla stessa, le aspettative diffuse e condivise da coloro che vi partecipano. Geografie, storie ed attori con i loro diversi costrutti mentali, con i differenziati bisogni di cui sono titolari, hanno concorso alla formazione e alla diffusione di distinte tipologie narrative, tributarie, a loro volta, di interessi e valori tra loro alternativi. Insomma, la narrazione della Shoah, lungi dal qualificarsi come elemento statico ed astorico, implica un disegno culturale sotteso, costituendo l’espressione di strategie della rappresentazione sociale e di autorappresentazione comunitaria attraverso le quali i gruppi che vi partecipano si qualificano e contribuiscono a definire la realtà nella quale operano.

In altri termini, è un campo simbolico e, al contempo, un’arena critica dove forze diverse si pongono in competizione. Parlare della deportazione e dell’assassinio di massa, quindi, implica l’assunzione della categoria del conflitto come dato non residuale bensì costitutivo della ricerca stessa: conflitto tra le parole, conflitto tra coloro che le pronunciano, conflitto tra gli interessi che muovono gli attori in campo, conflitto di ipotesi e di interpretazioni. In un’unica espressione, lo studio della Shoah si dà come una sorta di “opera aperta”, una specie di ipertersto destinato ad arricchirsi nel tempo non tanto di improbabili scoperte documentarie, destinate a mutare radicalmente il già acquisito, ma a costruire delle connessioni e dei legami di significato. Non è quindi di certo quel locus della pacificazione e dell’accordo così come certa pubblicistica, affermatasi negli ultimi anni, che inflaziona una parte degli scaffali delle librerie, vorrebbe invece poter sostenere con successo di riscontro. Nel corso dei decenni trascorsi sono andate strutturandosi forme diverse di narrazione, mutanti secondo i tempi considerati e i soggetti chiamati in causa. L’evento che ha fatto da spartiacque tra un prima ed un poi è senz’altro costituito dal processo Eichmann (1961), vero e proprio momento periodizzante tra un’epoca ove l’attenzione collettiva nei confronti della Shoah e della sua resa in chiave testimoniale era pressoché nulla, relegata ai circoli, ristretti ed autorefenziali, dei sopravvissuti, e una fase successiva nella quale la deportazione e il sopravvissuto hanno assunto una dignità fino ad allora inedita.
È infatti a fare dagli anni Sessanta che da vicenda intima e privata (ovvero sottratta all’attenzione pubblica) essa assume progressivamente lo statuto di evento collettivo, pieno di significati, veicolato attraverso i canali della comunicazione e amplificato dal circuito massmediale. Affinché si pervenga agli esiti che ci sono noti, tuttavia, i passaggi da considerare sono variegati e complessi. Le retoriche del discorso pubblico del dopoguerra e degli anni della ricostruzione lasciano ben poco spazio al racconto dell’inaudita violazione compiuta nei campi. I fattori che congiurano contro quello che è un bisogno, pur presente tra i reduci dai Lager, sono tanti. Le politiche della memoria adottate dai diversi Stati protagonisti della guerra in Europa divergono su più punti ma trovano, nelle loro differenze, come elementi di congiunzione il bisogno, da un lato, di riconoscersi in un’immagine compiuta e omogenea della vicenda resistenziale – almeno laddove aveva avuto corso – escludendo a priori quegli episodi che ad essa riuscivano difficilmente omologabili e tra gli stessi la deportazione, tanto più se razziale; dall’altro la necessità di valorizzare una sorta di ideale “eroico” e fattivo del processo storico nazionale recente, rielaborato più come premessa alla costruzione e allo sviluppo di un futuro in corso di realizzazione che non come esercizio di memoria e sguardo dolente verso il passato prossimo. Tanto più in un’Europa dove la compromissione con l’occupante tedesco attraverso il collaborazionismo era stato un fenomeno diffuso.
Il serrato confronto tra i due blocchi ideologici, poi, costituì all’Ovest un formidabile freno a qualsivoglia iniziativa antinazista che potesse essere considerata, o fraintesa, come filocomunista e, correlativamente, ad Est concorse a cristallizzare un’immagine di appartenenza dove nulla era concesso a quanto non si prestasse ad un’immediata immedesimazione con il progetto di “società socialista”, tanto meno la figura, ancora da venire, del deportato per motivi razziali. Va comunque ricordato che buona parte delle vittime, come dei luoghi dello sterminio, erano nate e cresciute proprio in quelle porzioni di territorio che ora ricadevano sotto la giurisdizione sovietica e dei suoi alleati, così come la lingua e la cultura che maggiormente avevano subito i catastrofici effetti delle politiche nazionalsocialiste erano quelle che rimandavano all’yiddish, destinate a vedersi riconosciute una funzione culturale e uno status politico relativamente secondari all’interno della comunità ebraica palestinese prima e dello Stato d’Israele poi. In questa prima fase i sopravvissuti non emergono quindi come gruppo in alcuna parte del corpo sociale, nemmeno tra le stesse comunità ebraiche, né negli Stati Uniti, né più in generale in Occidente e in Oriente come, peraltro, nello stesso Israele. Si tratta ancora di una catastrofe collettiva dai riflessi intimi. Come si è detto, è con il processo Eichmann, ma anche con quelli che si celebrano in Germania nella prima metà degli anni Sessanta, contro gli esecutori materiali dello sterminio, che le carte in tavola cambiano e, con esse, la posta medesima.
Non è corretto semplificare un complesso cambiamento di attenzione affermando che tale trasformazione sia da attribuirsi solo ad una deliberata volontà politica, nel caso d’Israele quella di David Ben Gurion. Così fa invece Hannah Arendt, cogliendo alcuni aspetti del percorso in atto ma sottovalutandone molti altri. D’altro canto, a conti fatti, risulta difficile immaginare una volontà così forte da poter modificare, da sé, per la sola ragione della sua stessa esistenza, un trend culturale altrimenti consolidato. Semmai la leadership israeliana coglie il senso del mutamento che, nella coscienza collettiva, non solo del proprio Paese, sta maturando. Già alla fine degli anni Cinquanta alcuni testi sul tema della deportazione razziale avevano peraltro ottenuto l’attenzione e quindi l’assenso di giudizio un pubblico europeo ampio ed eterogeneo. Si pensi al primo Elie Wiesel, quello de «La notte», ad André Schwarz-Bart con il suo «L’ultimo dei giusti», due opere destinate a diventare best-seller generazionali. Ora la narrazione della catastrofe veniva progressivamente incorporata nella cultura dominante del giovane Paese, con una significativa inversione rispetto all’originaria matrice sabra dello Stato d’Israele, altrimenti integralmente protesa a valorizzare l’immagine di un idealtipo di ebreo facitore del proprio destino, attivo e pugnace, assai poco proclive alla passività dettata dalle circostanze, che poco o nulla aveva a che spartire con la ritualistica raffigurazione del fatalista abitante dello Shtetl o del liberale integrato, emancipato se non assimilato nella società d’origine. Se fino a quel momento le figure della deportazione e dello sterminio avevano trovato scarsa cittadinanza pubblica nel profilo istituzionale del Paese, poiché percepite come contraddittorie rispetto alla costituenda identità nazionale israeliana, le cose dopo alcuni lustri dal 1948, iniziarono quindi a cambiare. L’essere stati soccombenti dinanzi alla violenza nazista non veniva più considerato oggetto del pudore personale e famigliare, entrando piuttosto, passo dopo passo, a fare parte di una coscienza collettiva, alla radice di un comune sentire. Il codice culturale collettivo conosceva in tale modo una trasformazione, interagendo con l’evoluzione di uno scenario ancora più ampio. Non è un caso se il trapasso inizi a consumarsi negli anni della contestazione giovanile nelle piazze occidentali, quando alla celebrazione dei “vincitori” si accompagna l’attenzione per la storia dei vinti. Da qui, per così dire, si riparte, non per riscrivere il passato ma per porsi nuove domande sul presente.

(1/segue)

Claudio Vercelli

(15 marzo 2015)