…oblio

I momenti di riflessione a cui partecipo con gli studenti delle scuole quando si parla di Shoah, di nazismo, di sterminio, si incentrano su due elementi che non finiscono di sorprendere sia gli studenti, sia gli intellettuali che animano il dibattito pubblico. Il primo è la “normalità” del massacratore, dell’aguzzino. Il secondo è la “spersonalizzazione” della vittima. Si tratta di due fra i più importanti canoni che hanno fatto sì che il nazismo e le sue azioni venissero considerate dalla critica contemporanea l’apice inarrivabile del male assoluto in età moderna. Invano, per decenni, Primo Levi e altri testimoni si sono sforzati di spiegarci che “può accadere di nuovo”. Per quanto ci si sforzi di ragionare, il nostro comportamento quotidiano mentre “viviamo comodi nelle nostre case” conduce inesorabilmente a dimenticare, a nascondere sotto il tappeto la polvere delle questioni irrisolte che si accumula e che prima o poi riemerge. Accade quindi che in una sera di autunno qualsiasi accendiamo la televisione e scopriamo che per le strade di Parigi gira della gente armata che risponde in tutto e per tutto alle caratteristiche che già conosciamo e – non so a che titolo – ce ne stupiamo. “Era il vicino della porta accanto”, si sente dire con sorpresa. Un ragazzo qualsiasi, integrato finché non ha frequentato quel gruppo estremista o quel circolo di fondamentalisti. Ma chi l’ha detto che chi ti uccide a mente fredda, guardandoti negli occhi, debba essere per forza il diavolo redivivo? Possibile che a distanza di più di quasi sessant’anni ancora non si sia imparata la lezione di Hannah Arendt sulla banalità del male? E lo stesso si dica per il processo di spersonalizzazione. È noto a tutti che il meccanismo psicologico che permette la perpetrazione di massacri di massa passa per l’annullamento delle identità individuali delle vittime. Per i criminali di Daesh tutti gli occidentali (e in questo “tutti” si ritrovano mano nella mano attivisti dei centri sociali e sionisti, grillini e leghisti, fascisti e anarchici no TAV) sono indistintamente “infedeli”, e la loro morte al Bataclan mentre assistono a un concerto di Rock duro è una questione di numeri, come per i nazisti gli ebrei deportati sui treni erano “stücken”, pezzi.
La dinamica di tutto ciò ci deve quindi essere chiara, come chiara deve essere la risposta. L’antidoto, oltre alla memoria costante e – se volete – ossessiva di quel che è accaduto, è la valorizzazione ad ogni costo della sacralità dell’individuo, della sua unicità e irriproducibilità. Non possiamo permettere che ci vengano tatuati numeri sul braccio, neppure in astratto. E se qualcuno suo malgrado cade, dobbiamo portarne in giro con orgoglio il nome e valorizzarne il pensiero. Inceppare la macchina della spersonalizzazione è uno dei nostri doveri di oggi. Sarà un buon modo per onorare la memoria di Valeria Solesin, giovane e brillante demografa veneziana, emigrata come tanti cervelli in fuga a Parigi, e uccisa come generica infedele in una brutta sera di novembre.

Gadi Luzzatto Voghera, storico

(20 novembre 2015)