…Milano
Milano sta cambiando rapidamente. Sarà stata l’Expo, o forse la necessità di un’umanità che non vuole passare alla storia per Piazza Fontana, o per Tangentopoli o per chissà quali altri eventi negativi e tragici più o meno evidenti. Oggi a chi la (ri)conosce venendo da fuori dà l’impressione di voler fare sul serio, da sola e al di là della politica, con le sue forze intellettuali e imprenditoriali. Sempre più policulturale nei quartieri residenziali come nelle strade del centro modaiolo, multietnica pure nelle grandi imprese commerciali, con i cinesi che si comprano il Milan e l’Inter (“Inda” secondo la pronuncia estremo-orientale del suo attuale proprietario). In turbinosa trasformazione architettonica, con i nuovi grattacieli e una studiata riqualificazione di intere aree urbane. E coraggiosa, nel riutilizzare spazi destinandoli a sfide non scontate. Fra questi atti di coraggio architettonico/urbanistico/civile assume una funzione di assoluto rilievo il Memoriale della Shoah in stato di avanzata realizzazione sul lato est della stazione centrale. Ne scrivo innanzitutto perché penso che se ne sappia troppo poco in Italia, e che sia necessario valorizzarlo come esempio più unico che raro nel panorama culturale della Penisola. Siamo in presenza di una ridefinizione degli spazi originariamente destinati dai progettisti delle ferrovie del regno d’Italia al carico e scarico di merci, un interporto ante-litteram. In maniera del tutto intenzionale e per nulla equivoca, a un certo punto della storia del nostro paese migliaia di uomini, donne e bambini divennero “merce” (pezzi, li chiamavano i nazisti nella loro terminologia amministrativa schietta ed esplicita) e quel luogo divenne il teatro della composizione dei treni merci che portavano per vie tortuose ai forni di Auschwitz. Oggi la città, grazie ad alcune delle sue anime democratiche (Regione, Provincia e Comune, e poi Ferrovie, UCEI, Comunità Ebraica, Fondazione CDEC, Associazione Figli della Shoah e Comunità di Sant’Egidio), e con l’appoggio volonteroso di non poche realtà imprenditoriali, ha deciso che quel luogo diventi un Memoriale. Non un museo (sebbene io tenda a dare a questo lemma un valore per nulla negativo), ma un luogo in cui far lavorare la Memoria, considerandola elemento essenziale per la crescita civile. Ne è uscito un progetto architettonico che a me pare interessantissimo e destinato a durare, curato dagli architetti Morpurgo e de Curtis. Una lettura per nulla banale, che mette il visitatore nella posizione scomoda di osservare un luogo e interrogarsi sulle dinamiche che lo hanno trasformato nell’inizio fisico, tangibile, di un percorso di morte. Ma si tratta anche di uno spazio che a breve ospiterà (come è ovvio e giusto che sia) la biblioteca e l’archivio della Fondazione CDEC, che rappresentano e conservano la storia e la memoria di quel traumatico passaggio della storia. Un luogo da visitare, valorizzare e conoscere, anche per la straordinaria capacità che la Fondazione che lo gestisce ha avuto di interpretare il senso profondo che una riflessione sulla Memoria può assumere nella realtà presente. Parlo dell’iniziativa forte e – ancora una volta – coraggiosa, di aprire gli spazi del Memoriale per ospitare e ricoverare alcune decine di quei profughi che oggi attraversano le nostre città nel loro cammino migrante verso un porto sicuro. Nel luogo in cui gli esseri umani divenivano merce e pezzi da trasportare si è così scelto di conferire nuova dignità ai singoli, alle individualità di donne, uomini e bambini che chiedono di essere considerati come persone. È il posto giusto, ed è la scelta giusta.
Gadi Luzzatto Voghera
(16 settembre 2016)