melamed – La lezione di Paola Sereni

Il 10 luglio scorso scompariva a Milano, alla soglia dei novant’anni, “la Sereni”. Paola Sereni Rosenzweig è stata preside delle Scuole della Comunità e docente di italiano al liceo ebraico per oltre una generazione di studenti, incluso il sottoscritto. Non so quanto avessi in comune con lei oltre alla voce stentorea: la ricordo intimarmi di moderare il tono della mia conversazione… dal fondo del corridoio! Le sue lezioni erano indimenticabili per la passione che ci comunicava. Una volta chiuse l’Orlando Furioso e rifiutò di proseguire la spiegazione perché sosteneva che non c’era la giusta atmosfera in classe, schioccando le dita per il disappunto. Ma non voglio legare la sua memoria ad aneddoti. Le dedico invece una modesta riflessione di letteratura comparata. Shaqadti wa-ehyeh ke-tzippòr bodèd ‘al gag (“Ho perseverato e sono stato come un uccellino solitario sul tetto”). Questo versetto dei Salmi (102,8) è passato alla storia della letteratura italiana per essere stato parafrasato in una celebre poesia: “D’in su la vetta della torre antica, / passero solitario, alla campagna / cantando vai finché non more il giorno”. Giacomo Leopardi (1798-1837) sapeva di ebraico e aramaico, oltre che di greco e latino. Il padre Monaldo aveva nella sua casa di Recanati una ricca biblioteca nella quale custodiva volumi pregevolissimi in tutte le lingue, come la Bibbia poliglotta di Walton (Inghilterra, sec. XVII), forse la più completa documentata. Ma a iniziare il giovane poeta allo studio delle lingue semitiche pare sia stato Giuseppe Antonio Vogel, un canonico alsaziano che era riparato in Italia dopo la Rivoluzione Francese e dedicava il proprio tempo ad attività di riordino delle biblioteche e di precettore. I cospicui riferimenti alla Bibbia ebraica presenti nella produzione leopardiana sono già stati oggetto di vari studi. Vorrei qui ora soffermarmi soltanto su un dettaglio.
Il tema de “Il passero solitario” è un confronto fra le abitudini dell’uccellino del titolo e l’autore: entrambi vivono isolati. Nel caso del passero, trascorre da solo la primavera mentre il poeta vive in solitudine la primavera della sua vita, ovvero la giovinezza. Il futuro delle due creature sarà peraltro diverso: il passero invecchierà e morirà senza alcun ripensamento sulle sue scelte, prodotto del suo istinto e della natura, mentre il poeta patirà un forte rimpianto. Oltre che una riflessione autobiografica la poesia, del 1831, può essere considerata una eloquente testimonianza di quello che viene definito il pessimismo leopardiano nella sua fase più accentuata: una meditazione filosofica che procede di pari passo con l’attività del poeta. L’infelicità è una delle condizioni esistenziali dell’uomo la cui vita diviene fonte di delusioni, sofferenze e noia, con l’unico scopo di procedere verso la morte. Anche il Salmo 102 esordisce con accenti negativi. Così Dante Lattes nel suo Commento ne riassume la prima parte: “…esso sarebbe la preghiera di un povero derelitto che chiede a D. di lenire le sue pene. È un essere disgraziato e quasi finito, che vede sparire nel nulla le sue vane e dolorose giornate, che ha le carni inaridite e le ossa secche, che non ha neppure voglia di mangiare. Si paragona all’erba colpita e bruciata dal sole… e agli uccelli selvatici che vivono nei luoghi abbandonati o fra le macerie… ai passeri solitari che non hanno compagni né sollazzi”. A partire dal v. 14 il registro tuttavia muta radicalmente: il tema diventa risorgimento nazionale e patriottico, al punto di aver fatto sospettare la fusione di due canti in uno. Il salmista esprime la certezza che D. consideri suonata l’ora di risollevare con un atto di amore le sorti di Yerushalaim. Insomma, un esito tutt’altro che pessimistico.
Tzippòr bodèd è tradotto dalla Vulgata in latino passer solitarius ed è questa certamente la fonte di Leopardi. Tale versione, peraltro, tradisce l’originale nell’etimo. Di passer non conosciamo l’origine, ma ovviamente tendiamo ad associare la parola al verbo passare. Un collegamento che avrà fatto comodo al poeta di Recanati per condensare nell’immagine del passero la sua visione pessimistica della vita. Ma tzippòr (genericamente “uccello”) in ebraico ha tutt’altro retroterra: il vocabolo è collegato con una radice che significa “mattino” (tzafrà in aramaico). Forse perché il cinguettio degli uccelli accompagna nel nostro immaginario il risveglio mattutino assai più che la morte del giorno, per dirla con Leopardi.  Ciò che il poeta marchigiano non sembra cogliere dello spirito del testo ebraico cui si ispira è il messaggio di speranza. Per quanto martoriati (dall’esilio, nel nostro caso, paragonato alla notte), dobbiamo saper reagire e scorgere in ogni piccolo passo il cenno ad una rinascita. A una nuova alba. È questa l’essenza della nostra storia. È questa l’essenza della nostra vita.
L’importanza che noi ebrei attribuiamo alla cultura si vede, fra l’altro, dalla partecipazione con cui accompagniamo alla lacrimata sepoltura i nostri Maestri. Così è stato per Paola Sereni. La sua scomparsa ha riempito tutti noi suoi allievi di profonda tristezza. Sappiamo peraltro che l’insegnamento non muore, ma vive di generazione in generazione. La ringraziamo per ciò che Lei ci ha dato nei nostri anni di scuola. Un impegno all’approfondimento e alla perseveranza che cerchiamo, nei limiti delle nostre forze, di portare avanti nel nostro quotidiano. Paola continuerà a vivere nelle nostre menti e nel nostro cuore. Il suo ricordo sia in benedizione! 

rav Alberto Moshe Somekh
da Pagine Ebraiche, novembre 2016

(28 ottobre 2016)